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‘Io capitano’, l’odissea della speranza di Matteo Garrone

C'è molto di vero, di sentito, di testimoniato nel nuovo film, toccante e sincero, del regista. Che, nonostante salpi verso le terre emerse della realtà più cruda, non abbandona il terreno della fiaba, stivando i nostri pregiudizi ma senza cercare la compassione di nessuno. In concorso a Venezia 80

Foto: 01 Distribution

Chiedetelo a Fofana, se non ci credete: perché è successo davvero. Chiedetelo a lui che a 15 anni si ritrovò al timone di una barca con 250 migranti, senza averne mai condotta nessuna, in mezzo al mare di tutti e di nessuno, e una volta avvistata terra urlò davvero, con l’inferno alle spalle e il futuro chissà: “Io capitano”, “Io capitano”.

Chiedetelo a lui, che adesso vive in Belgio, ha moglie e figli, ma il passaporto ancora no. C’è molto di vero, di sentito, di testimoniato – e non potrebbe essere altrimenti – nel nuovo film, toccante e sincero, di Matteo Garrone (in concorso a Venezia 80): che però, nonostante salpi verso le terre emerse della realtà più cruda non abbandona il terreno a lui carissimo (da Reality al Racconto dei racconti, da Pinocchio alle visioni dark di Dogman) della fiaba, immergendosi nell’attualità più urgente senza però trascurare la poesia, il lirismo, la magia di un incontro o di un abbraccio.

È un film a cui non si fa fatica a volere bene, questo. Sarà per gli occhi dei due protagonisti (e per la forza incontenibile – e incontaminata – della giovinezza), o forse per lo sguardo largo, ampio (quei campi lunghi che sanno di epopea, mentre l’avventura diventa odissea) del regista. Che, nel controcampo della Storia, ribalta il nostro abituale punto di vista e di un percorso fra archetipo, romanzo di formazione, viaggio, inevitabilmente, anche interiore. La fine è nota, ma a Garrone non interessa quello che accadrà dopo: ma il prima e il durante.

Matteo Garrone sul set di ‘Io capitano’. Foto: 01 Distribution

La soggettiva di chi, non senza senso di colpa, recide le radici per inseguire il suo sogno: e affronta il mare per gridare “Italie!”, anche se non sa neanche nuotare. È una storia di passione (là dove non c’è libertà senza calvario), di amicizia, di resistenza, Io capitano: si parte ragazzi e si arriva uomini, feriti e stremati, ma vivi, indomabili.

Come i senegalesi Seydou e Moussa (gli absolute beginners Seydou Sarr e Moustapha Fall, bravissimi), che se ne vanno senza dire niente a nessuno, attraversano il deserto, conoscono le torture delle prigioni libiche. Poi vengono divisi, si perdono, si ritrovano: ma tra loro e l’Europa ci sono ancora le onde e tante anime nella corrente.

Seydou Sarr in ‘Io capitano’. Foto: 01 Distribution

Profondamente umanista, internazionale (anzi, di più: universale) nel pensiero e nella realizzazione, profondo nel respiro, il film di Garrone stiva i nostri pregiudizi, ma non cerca la compassione di nessuno. Va per la sua strada senza voltarsi indietro, completamente differente per stile, idea e concezione da Green Border, l’altro film a tema migranti (della polacca Agnieszka Holland) presente in concorso (con ottime chance di premio): dove questo è politico, Io capitano è personale, dove là si alza forte la denuncia qui prevale il sentimento, la resilienza, la speranza.

Quel misto di fatica e sollievo, di determinazione e paura che si legge sul volto di quel capitano ragazzino, nell’interminabile primo piano finale che da solo fa il film, e da cui il film non a caso è nato. Un’immagine potente che ci interroga, ci scuote. Ma non ci assolve.

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