Il vero rock’n’roll italiano? È stato lo spaghetti western, e Sergio Leone ed Ennio Morricone le nostre rockstar. A dirlo a Rolling Stone è Piero Negri Scaglione, che dopo essersi cimentato in un bellissimo libro monografico su C’era una volta in America, torna in libreria con Sergio Leone – Il romanzo di una vita (Sperling & Kupfer), biografia nella quale esprime punti di vista inediti sull’opera del regista. Così come inedito è il parallelo tra il suo cinema e il rock’n’roll. E su questo non si può prescindere dalle colonne sonore di Ennio Morricone, che a partire da Per un pugno di dollari (1964) si è occupato delle musiche di tutti i film di Leone.
«Lo spaghetti western è stato l’espressione più simile al rock degli anni Sessanta e Settanta», dice Negri, «ma in una versione originalmente italiana, con un sapore e un’origine molto italiani. La musica italiana, anche quella assimilabile al rock, deriva da un modello anglosassone. A partire da un esempio come quello di Celentano, c’è una dichiarata italianizzazione di un linguaggio che arriva da fuori. La grandezza di Leone consiste invece nell’aver innescato un processo contrario: non fa dei film sul mito americano per celebrarlo, come hanno fatto molti musicisti italiani con il rock anglosassone, ma per criticarlo e smontarlo».
Per un pugno di dollari, il film che dà inizio alla stagione dello spaghetti western, esce nel 1964, lo stesso anno in cui i Beatles conquistano l’America.
In quel momento i Beatles rendono il rock un linguaggio egemone. Leone viene dal cinema popolare italiano, che era in parte un cinema di vecchi registi come Mario Camerini, al quale lui faceva da assistente. A un certo punto gli viene un’idea bizzarra. Vede I magnifici sette di John Sturges, che è un remake dei Sette samurai di Kurosawa, e poi vede La sfida del samurai dello stesso Kurosawa. E decide di portare nel West il samurai protagonista del film, e di farlo diventare quello che sarà il personaggio di Clint Eastwood. Per me è un procedimento molto simile a quello che succede nel rock di quegli anni lì, che prende certi elementi del blues e li porta in una dimensione altra.
Secondo te si può dire che, nell’ambito del western, il suo era un cinema nuovo come nuovi erano i Beatles per l’America?
L’ultima fase dei western classici era fatta da film molto sentimentali e molto moralisti. Un esempio è La conquista del West del 1962, in cui ci sono John Wayne e altri divi del genere. Con film come questi, l’America cerca di darsi un proprio mito fondativo in cui i nativi americani non vengono sterminati. Ma la vera conquista del West è stata un massacro da ogni punto di vista, e nella corsa all’oro c’era chi rubava la terra a chi già vi si trovava. Il cinema dell’ultima fase western invece idealizzava e nascondeva. Arriva Leone e il suo eroe è un solitario, che apparentemente cerca solo i soldi, che ammazza delle persone e arriva a cavalcioni di un asino. L’operazione critica di Leone è questa, e la si vede in queste differenze molto grandi: ci sono un grande cinismo e la distruzione di un idealismo che suona falso.
Intanto, a conquistare l’America del 1964 sono quattro capelloni con una musica che alla generazione dei padri sembra assordante.
La violenza era per Leone ciò che il presunto rumore delle chitarre era per i Beatles. Una cosa che i padri non capivano e anzi stigmatizzavano. Il classico “dove andremo a finire?”. In Italia, un quasi sessantenne Mario Soldati vede Per un pugno di dollari e scrive che è un film “ripugnante” e pieno di violenza. Ma scrive anche che i suoi tre figli sono tornati a vederlo. Il film gli appare moralmente riprovevole e privo di morale. Leone opera una rottura di linguaggio rispetto al cinema precedente, come i Beatles rispetto alla musica che piaceva ai padri dei loro fan.
Il successo di Leone, poi, è dirompente, anche in America. Così come la musica di quegli anni, il suo cinema è anche uno strumento utilizzato dai giovani per dire ai propri padri: siamo diversi da voi.
Nel suo cinema ci sono il cinismo e la voglia di fare piazza pulita di una certa retorica dei buoni sentimenti e dei cosiddetti valori che molti non sentivano più. In America videro il cinema di Leone come una specie di allegoria del Vietnam. I suoi film venivano criticati perché troppo violenti, ma intanto centinaia di ragazzi americani venivano mandati a morire. Anche Robert Kennedy a un certo punto, poco prima che lo ammazzassero, prende il titolo The Good, the Bad and the Ugly e lo fa diventare una specie di slogan della sua campagna elettorale. Questo per dire che Leone era entrato nel linguaggio comune della politica e di un nuovo mondo che accusava il vecchio di essere ipocrita. L’impatto di Leone sulla cultura americana è stato molto forte, tanto che a un certo punto molti grandi attori americani vogliono lavorare con lui. Persino Mick Jagger a un certo punto ha detto che sarebbe stato il suo sogno.
Rimanendo nel parallelo Beatles-Leone, anche nel suo cinema vedi un’evoluzione?
Certamente c’è un’evoluzione. Per il mio libro ho intervistato Sergio Donati, lo sceneggiatore che ha lavorato più a lungo con Leone. Lui dice che, con il montaggio di Il buono, il brutto e il cattivo, Leone smette di divertirsi e sente di avere abbastanza successo per dettare lui i tempi. A un certo punto i Beatles dal vivo non si divertono più, ed effettivamente erano diventati una specie di macchina, e allora diventano una band da studio. Leone dal canto suo spinge ancora di più sull’aspetto del montaggio, si concentra sulla post produzione, che era la parte in cui lui secondo me si sentiva più forte, e fa film sempre più complessi.
Se parliamo di Leone e il rock’n’roll, è inevitabile chiederti del ruolo di Ennio Morricone.
Sono sicuro che tra cent’anni, anche di più, la musica del Novecento che si ricorderà è quella di Morricone, forse quella di John Williams, ma non quella dei compositori accademici. Per il loro primo film insieme, Morricone fa un’operazione molto rock’n’roll perché, per il tema che tutti conoscono, utilizza un arrangiamento di un pezzo di Woody Guthrie che aveva già fatto per la RCA, Pastures of Plenty, al quale Leone chiede di togliere tutte le parole. La connessione rock’n’roll, probabilmente involontaria, consiste nel fatto che prima dell’incontro Leone-Morricone la musica era, come si diceva, commento sonoro. Con loro due diventa la struttura del film. Leone era figlio di un regista del muto, e nasce nel 1929, cioè esattamente negli anni in cui c’è il passaggio tra muto e sonoro. Suo padre è stato una delle vittime di questo passaggio, uno di quelli che non si sono adattati alla novità. Il regista preferito di Leone era Chaplin, che ha continuato a fare film muti anche quando c’era già il sonoro, perché a lui piaceva il film muto: la sua sfida era quella di far ridere, di far divertire, di raccontare le storie senza sonoro. E alla fine è la stessa cosa che vuol fare Leone.
Quali sono le ragioni principali dietro a questo obiettivo?
Forse per una specie di legame con il padre, forse perché era proprio il cinema che gli piaceva, Leone punta a fare film in cui il dialogo sia proprio il minimo indispensabile. Però c’era la musica. Nel documentario di Tornatore su Morricone, Bruce Springsteen dice che quando è andato a vedere i film di Leone ha visto dei film che non aveva mai visto prima, con una musica che non aveva mai sentito prima. Leone gli dà quindi una sensazione di novità assoluta. È l’unica occasione della sua vita in cui, uscito dal cinema, va a comprarsi il disco della colonna sonora.
Soprattutto agli americani, quindi, si manifesta una doppia novità incredibile: storie e immagini che non si erano mai viste e musica che non si era mai sentita prima.
La cosa paradossale, molto divertente, è che questo portare novità era l’ultima cosa che Morricone aveva in mente. A lui piaceva Monteverdi.
Però diventa una rockstar, sia per il successo sia per l’influenza su altri musicisti. La stessa cosa che succede a Leone.
Marco Morricone, suo figlio, racconta che da adolescente – erano quindi gli anni Settanta – gli veniva impedito di accendere la radio o di suonare in casa i dischi che gli piacevano, perché suo padre aveva paura di venire influenzato, che una melodia potesse rimanergli in testa. Però è stato lui a influenzare gli altri.
Come ti spieghi il grande successo di Morricone presso i musicisti che sono venuti dopo?
La spiegazione che mi ha dato lui stesso quando l’ho intervistato sta nell’uso di sonorità non convenzionali e di strumenti che non si erano mai sentiti prima. In Per qualche dollaro in più, che è la prima vera colonna sonora che lui scrive per Leone ed è bellissima, c’è lo scacciapensieri che è una cosa folle, no? E poi ci sono i rumori: il grillo, il verso del coyote…
Morricone cerca di arrivare sempre a un’essenzialità di suono: non ci sono quasi mai livelli di suono sovrapposti. La sua non è musica per orchestra: è musica che si potrebbe suonare con chitarra, basso e batteria. Lui con l’orchestra ci lavorava ma poi scarnificava il risultato di questo lavoro. Alla fine erano tutti temi che magari nella sua testa partivano come orchestrali, ma diventavano molto essenziali. Riusciva a suonare come un’orchestra, ma con pochi strumenti di base. Ci sono musicisti “morriconiani” come i Metallica che hanno tentato di essere orchestrali a partire dagli strumenti del rock. Morricone però faceva il contrario: lui partiva dall’orchestra per arrivare a qualcosa di molto simile al rock.
