I film sono confezionati per abbagliare attraverso il suono e la visione. Questo lascia tre sensi su cinque inutilizzati, almeno fino a quando il cinema non raggiunge l’inevitabile fase di massima immersività. Il gusto delle cose, l’ultimo film del regista franco-vietnamita Trần Anh Hùng (nelle sale italiane dal 9 maggio), è una di quelle rare opere che danno l’illusione di coinvolgere molto di più dei soli occhi e orecchie. “Sensuale” è un aggettivo troppo blando per descrivere il modo in cui questo dramma filma e “feticizza” il cibo che gli occupanti di una cucina del XIX secolo nella campagna francese stanno metodicamente cucinando. Osservate come maneggiano ortaggi e lombi di vitello, la perizia con cui versano un brodo sugli albumi, il modo appetitoso di versare con cura la panna fresca su un pesce aperto a metà e la farcitura di una pasta sfoglia con tutta una serie di prelibatezze. Si giurerebbe di poter annusare, toccare e, sì, assaggiare i piatti che vengono preparati sullo schermo davanti a noi. È come un gioco di prestigio epicureo.
Gli sciamani della cucina che eseguono questi squisiti rituali sono alla base costituiti da un duo: Dodin Bouffant (Benoît Magimel), un rinomato gourmand che trascorre le sue giornate studiando la scienza del cibo quando non si concede lunghi e lussuosi pranzi con un gruppo di appassionati di cucina che la pensano allo stesso modo; ed Eugénie (Juliette Binoche), la sua cuoca privata da vent’anni. I due hanno condiviso il letto in numerose occasioni, e Dodin le ha fatto decine di proposte di matrimonio; lei ha cortesemente rifiutato per decenni, ed è perfettamente felice di non turbare l’equilibrio personale e professionale che hanno stabilito.
D’altronde, il loro vero legame spirituale – la vera intimità tra loro – non avviene tra le lenzuola, ma davanti a fornelli e forni. Violette (Galatéa Bellugi), una giovane governante, li aiuta con piccoli compiti. La mattina in cui facciamo la conoscenza di questi “gastronauti”, la nipote adolescente di Violette, Pauline (Bonnie Chagneau-Ravoire), si è appena unita a loro per preparare un sontuoso banchetto. Il modo in cui è in grado di distinguere numerosi ingredienti in un cucchiaio di salsa bourguignotte suggerisce che non è solo curiosa di ciò che accade in cucina, ma possiede un vero e proprio dono ancora non sfruttato. Sia Dodin che Eugénie ne prendono atto. Potrebbero avere una potenziale apprendista tra di loro.
La sequenza di quasi mezz’ora che dà il via a Il gusto delle cose è davvero il tipo di scena da “cinema di cucina” capace di mandare in fibrillazione allo stesso tempo cinefili e food blogger. Come altri film che catturano le gioie della cucina e il brivido carnale del mangiare, questo dramma romantico francese è tanto un’ode alle bonne bouches regionali quanto un’epica storia di due anime epicuree. Trần Anh Hùng è sempre stato un regista che privilegia l’atmosfera rispetto ai fuochi d’artificio, prestando molta attenzione all’ambiente in cui si svolge una storia tanto quanto la storia stessa. Noterete probabilmente che non c’è una colonna sonora che stimola le vostre reazioni emotive, ma semplicemente un tappeto di rumori naturali – uccelli, grilli, il vento, il suono della cucina – che sottolinea i legami del cibo con il suo punto di origine e con il mondo che ci circonda. Non per niente l’opera più nota dello sceneggiatore e regista si intitola Il profumo della papaya verde (1993). Nei suoi film i sensi fanno sempre gli straordinari.
Così, mentre la sua macchina da presa si muove in picchiata, scivola e si intreccia intorno a questa coppia e ai suoi aiutanti in cucina, ogni momento di imbastitura, mescolamento, setacciamento, miscelazione, misurazione e assaggio ha il suo giusto spazio, per far apprezzare il lavoro e l’amore che si impiegano nella preparazione di questi piatti. Merito dello chef tristellato Pierre Gagnaire e del suo compagno d’armi Michael Nave per i piatti che vedete sullo schermo, e del neurologo Ivan Pavlov per aver individuato il motivo per cui la vostra reazione a queste incredibili prodezze gastronomiche è una sbavatura incontrollabile.
Sebbene Il gusto delle cose si caratterizzi da subito e facilmente come il food-porn movie ad alto contenuto artistico dell’anno, e non sia timido nell’accompagnare al lato sensoriale quello sensuale – c’è un taglio di montaggio tra un dessert di pere in camicia e un fondoschiena al naturale che farà alzare le sopracciglia e i battiti – è soprattutto un film sull’amore nei confronti di una forma d’arte. Dodin ed Eugénie si legano a causa di una passione reciproca che va oltre il fisico: sono attratti dalle reciproche abilità, dai loro talenti complementari, dalle loro palette impareggiabili, dal modo in cui condividono un senso del gusto letterale e figurato. Non c’è bisogno di sapere che Magimel e Binoche, che qui sono entrambi ottimi, sono stati una coppia e hanno avuto un figlio insieme, anche se questo aggiunge un’altra dimensione alle loro interazioni sullo schermo. Anche le frasi a volte pretenziose di Dodin, che è ispirato ad alcuni gourmand dell’epoca realmente esistiti, e dei suoi colleghi gastro-nerd evidenziano il legame che c’è tra loro. Una cena di cinque portate non è mai solo una cena di cinque portate. È una dichiarazione di intenti.
Quando Pauline appare come una bambina che condivide la loro capacità di sperimentare il mondo intero in un boccone, l’idea che possa continuare questa tradizione li entusiasma. Ogni generazione ha bisogno di un gastronomo e di una custode della fiamma. Non è solo il cibo, ma l’ammirazione e l’apprezzamento del cibo, così come la suggestione nei confronti di qualcosa di divino che si verifica quando un vero maestro chef prepara un piatto, a mantenere vive queste cose. E questo, suggerisce il film, ci tiene in vita in modi che vanno oltre il semplice sostentamento. Quando la morte fa il suo ingresso nella storia, Il gusto delle cose sa che il dolore lascia l’amaro in bocca. Ma riconosce anche che la vita è breve ma anche dolce, e che è un piacere averla condivisa e assaggiata con qualcuno.