Il cinema italiano (r)esiste, lo dimostrano i cortometraggi dei David di Donatello | Rolling Stone Italia
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Il cinema italiano (r)esiste, lo dimostrano i cortometraggi dei David di Donatello

Cinque registi, cinque storie, cinque idee di settima arte, cinque film tutti disponibili su MUBI. Nell'era dell'improducibilità tecnica dell'opera d'arte, la forma breve ha tanto da insegnarci

Mayonezë

Un fotogramma di 'Majonezë' di Giulia Grandinetti

Courtesy of Giulia Grandinetti

Sono arrivati su MUBI i cortometraggi finalisti ai David di Donatello 2025. È una notizia, una possibilità, una cosa. Non solo per la filologia, tenere traccia di opere che il canone ha ritenuto meritevoli. Rimane tra la dichiarazione di intenti e il coronamento di un percorso: quello che ha portato la forma breve a essere parecchio attenzionata dalla piattaforma di streaming preferita da quelli che di cinema dicono di capirci, o che vorrebbero.

Badate bene, mi ci metto in mezzo. La snob sono io. Figurarsi: scuola di cinema però teorica, non di quelle che ti insegnano come stare su un set; larga formazione umanistica; 2001: Odissea nello spazio, Mystery Train e Mulholland Drive listati tra i “4 film” che ben conosce chi frequenta Letterboxd, altro ambiente cinefilissimo. L’ultimo non ve lo dico, così magari tiro su due follower. Dimenticavo: aggiungere al pacchetto una tesi di laurea in Filosofia del Cinema, con il tentativo di mettere in relazione l’esistenzialismo heideggeriano con la cinematografia di Jim Jarmusch (lowkey flex).

Io e MUBI insomma ci capiamo (anche se preferisco il catalogo della Gran Bretagna). Non potrebbe essere diversamente, per uno streaming service fondato nel 2007 (!) con il nome primigenio di The Auteurs e l’obiettivo di offrire un nuovo film al giorno, ad abbonati a pagamento, facendolo scomparire dopo un mese. È ancora così, ma l’offerta si è arricchita di sezioni tematiche. Inoltre sono arrivate le MUBI Release, distribuzioni nate nella casa di chi storce il naso se la troupe non conta almeno un cognome francese.

«Fin dal primo giorno, MUBI ha avuto delle opinioni molto nette sul cinema». Questa è una dichiarazione di Efe Çakarel, suo fondatore (l’azienda ha sede nel Regno Unito). Posso condividerla io (che ho delle idee abbastanza nette sul cinema), ma potrebbero farlo anche i registi dei corti dei David: Andree Lucini (La ragazza di Praga), Giulia Grandinetti (Majonezë), Andrea Gatopoulos (The Eggregores’ Theory), Nicola Sorcinelli (La confessione) e Matteo Tortone (Domenica sera). Sarà quest’ultimo a portarsi a casa la statuetta, ma in questa sede poco importa.

A me interessa un dato di fatto: nell’era dell’improducibilità tecnica dell’opera d’arte (cinematografica), il cortometraggio è diventato resistenza e speculazione, ripiego e necessità, e questi cinque, completi come lungometraggio, quasi compressi nella voglia di dire e di esplodere, lo hanno dimostrato. L’adagio vuole che sia una palestra: gli scrittori si fanno i muscoli sui racconti, i musicisti sulle cover, i registi sui film brevi. In un sistema virtuoso, sarebbe anche bello così. La verità è che, come è stato a più riprese ricordato dai vincitori premiati la sera del 7 maggio a Cinecittà, eseguire la settima arte, almeno in Italia, è diventato l’atto di fede di un Sisifo, incestato tra bandi, concessioni ministeriali, assenza quasi totale dell’iniziativa privata (e te lo credo, con questi investimenti a vuoto) e generale difficoltà del circuito delle sale. Mi fa strano scriverlo, ma i cortometraggi fanno gola: non hanno nemmeno, virtualmente, costi di distribuzione, semplicemente perché qui da noi non siamo abituati a bere il vino con il ghiaccio – cioè, a vedere al cinema tante piccole storie invece che una articolata. Infatti Valerio Ferrara, uno che aveva vinto con un cortometraggio al Festival di Cannes nella sezione dedicata alle scuole di cinema, La Cinef, ha poi “allungato” il suo corto in un film, Il complottista, uscito lo scorso anno.

Il cortometraggio insomma non è più un esercizio (di stile). Ha dispiegato la dignità che ha sempre rappresentato, alla faccia di chi mette sullo schermo due ore e venti di montato. È dove nasce il cinema: un numero di magia, il tempo di un battito di ciglia meravigliato. Ops, voilà, il trucco ci è sfuggito. Dicevo: come MUBI, anche questi cinque registi hanno le idee chiare. La selezione di quest’anno l’ha mostrato in modo incontrovertibile: c’è chi ha lavorato sul documentario (Lucini), chi sul “cinema del reale” però traslato in una – verissima – fiction (Tortone), chi sullo sperimentale (Gatopoulos); e poi un’opera in costume “statuaria” (Sorcinelli) e un film, quello di Giulia Grandinetti, che unisce la magia dell’Est alla struttura dell’Ovest. Come il (giovane) collega Ferrara, anche loro dimostrano di avere capacità, materiale, voce. Storie che, nonostante la collocazione elitaria, sono forti abbastanza da parlare a tutti (i loro autori ne parlano invece in questo podcast). È solo quel mezzo tecnico che manca.

Non mi interessa spoilerare, né raccontarne troppo le trame. I cinque sono appunto tutti disponibili su MUBI, e la scoperta senza mappe riserva gioie inaspettate. A me, presi a mazzo insieme, appaiono come una speranza: sì, va bene, chissà che scoperta sarà mai tirare un sospiro di sollievo e dirsi, nella solita bolla, che il talento comunque c’è; che le visioni ci sono; che diverse modalità di racconto, pure critico, del reale sono possibili. Che in Italia abbiamo il know-how ma che ci conviene portarlo all’estero.

No, ho sbagliato, la speranza rimane nelle chiese. Allora si tratta di un monito, e paradossale. Forse dovremmo anche noi uscire dai cinema, almeno finché non ne avremo modificato l’idea, ampliata, allargata. Finché non comprenderanno i cortometraggi, o non daranno più spazio alle cose piccole e nuove. Dalle nostre parti funziona così: devi già essere qualcuno per essere qualcuno. Desidererei che, almeno per loro, una candidatura ai David sia stata sufficiente come sigillo di qualità.

Ma poi lo so, lo so che è difficile, e che a poterlo fare, a tornarci dentro con il borsello, magari tutti si applicherebbero, religiosità di una cineteca di Francia (proprio dove Jarmusch andava a vedersi film in lingue che non capiva, perché Henri Langlois li proiettava con il rigore del non-sottotitolo) o di una sala di provincia che apre quando le pare e fa cultura come le pare. Perché se nei lungometraggi le mani appaiono sempre in qualche modo legate, il corto respira di più: e può, appunto, fare cultura un po’ come gli pare. In questo momento, porta sotto gli occhi di tutti i problemi dell’industria-cinema.

Perciò è bello, osservare le piattaforme popolarsi di piccole cose belle. E poi, al gusto di ognuno giudicare. Il merito però, soprattutto nell’anno di grazia 2025, o forse di disgrazia, è immutabile: la storia si impone anche quando nessuno sembra volerla ascoltare, o raccontare. La storia si impone e troverà una strada.

E se deve partire da un non-luogo di intellettuali, che lo faccia. Non è possibile andare per il sottile, o aspettare. Ora scusate, ma torno a guardare un film russo girato in piano sequenza. Ma non prima di aver citato Oscar Wilde rispondendo a un messaggio su WhatsApp. Sapete, alla fine funziona così…