Aragoste a Manhattan
Alonso Ruizpalacios
Il titolo originale è La cocina, ed è lì, nel retrobottega di un grill di Manhattan, che avviene questa tragicommedia delle migrazioni, ma filmata in un bianco e nero a metà fra la sophisticated comedy dell’età dell’oro (vedi il “balletto” fra Raúl Briones e Rooney Mara) e la New Hollywood anni ’70. Dopo gli invisibili Güeros, Museo – Folle rapina a Città del Messico e A Cop Movie, Alonso Ruizpalacios si riconferma una delle voci più vitali in circolazione. Il suo cinema meriterebbe più attenzione.
Broken Rage
Takeshi Kitano
Takeshi Kitano torna e, sdoppiandosi ancora una volta dopo anni nella sua incarnazione d’attore (“Beat” Takeshi), sforna un altro piccolo capolavoro chapliniano. La stessa storia raccontata due volte: prima come thriller yakuza, poi come commedia slapstick. E con tanto di sfottò alle logiche algoritmiche del cinema di oggi (e alla durata spropositata dei film: questo è lungo 1 ora e 2 minuti appena, tiè). Da recuperare su Prime Video.
The Brutalist
Brady Corbet
(Ri)nascita di una nazione. Al terzo film dopo gli interessanti ma imperfetti L’infanzia di un capo e Vox Lux, Brady Corbet diventa Autore. E filma (con un budget di meno di 10 milioni di dollari!) un’epopea moderna che racconta, again, la distruzione del Sogno Americano, ma anche la costruzione di un Paese che resterà condannato a sognare. Tra architetture (im)possibili, uomini che diventano lupi e una performance di Adrien Brody da (secondo) Oscar: bentornato, ci eri mancato.
A Complete Unknown
James Mangold
L’accuratissima trasformazione di Timothée Chalamet, che diventa corpo e voce di Bob Dylan senza però alterare il suo volto (e il suo star power): certo, questo film si basa moltissimo anche su questo. Ma il solido professionista James Mangold fa della storia di Bob Dylan il canto di tutti i complete unknown che si prendono l’America, la rivoltano, la rivoluzionano. Llewyn Davis che ce l’hanno fatta, come questo biopic musical classico e però non convenzionale, anzi più intelligente di tutti quelli (troppi) visti negli ultimi anni.
Emilia Pérez
Jacques Audiard
Il titolo che avrebbe dovuto sbancare tutto, e che invece è stato travolto dallo scandalo (non vi faremo qui il riassunto, tranquilli). Ma diamogli ciò che gli spetta. E diamo a Jacques Audiard il merito di aver partorito un oggetto che solo a lui sarebbe potuto venire in mente: un gangsta musical tra transizione, soap opera, impegno. E tre attrici straordinarie: Karla Sofía Gascón, Zoe Saldaña (premiata con l’Oscar) e Selena Gomez alla prova della maturità. I “politicamente correttisti” hanno storto il naso: imparate cos’è il Cinema.
Fuori
Mario Martone
Anti-biopic che gioca per frammenti, evocazioni, suggestioni. È quello che Mario Martone ha dedicato a Goliarda Sapienza (splendida Valeria Golino, in un’operazione quasi “meta” dopo la sua Arte della gioia). Ne viene fuori il racconto di una donna e di un’epoca, e di un perbenismo duro a morire (ancora oggi): si veda il filmato d’archivio finale con la vera scrittrice. Attrici portentose, in barba alle polemiche sugli “ex aequo”: oltre alla protagonista, menzione a Matilda De Angelis in un ruolo per il cinema finalmente “da grande”.
Io sono ancora qui
Walter Salles
Il dramma dei desaparecidos brasiliani visti con gli occhi di chi è rimasto. Walter Salles (Central do Brasil, I diari della motocicletta) prende la vicenda vera e drammatica della famiglia Paiva e la trasforma in cinema civile classico, capace di dialogare coi fantasmi del presente. E che insegna dove, a volte, bisogna mettere lo sguardo per capire le storie e la Storia. Gran merito della riuscita va alla magnifica Fernanda Torres, da idolo local a star globale.
Maria
Pablo Larraín
Alla terza (e ultima) tappa della trilogia sulle icone femminili del Novecento (prima c’erano state Jackie Kennedy/Natalie Portman e Lady D/Kristen Stewart), Larraín firma un altro (non) biopic, stavolta forse meno capito. E per raccontare il divismo che non c’è più (e il suo modo di viverlo “operisticamente”), sceglie una delle più grandi dive del cinema contemporaneo, come in uno specchio. Angelina Jolie diventa Maria sotto i nostri occhi, tra mito, tragedia, quel vivere d’arte e d’amore che solo il teatro può dare.
Mickey 17
Bong Joon-ho
Dopo il boom di Parasite, gli occhi di tutti erano puntati sulla successiva mossa del prodigioso K-director. Che sforna una satira sci-fi (tratta dal romanzo di Edward Ashton) che è soprattutto una satira della geopolitica di oggi, tra milionari prestati al governo del mondo e altre assurdità tristemente verissime. E che si basa sulla weirdissima prova di Robert Pattinson, mai stato così in parte. Chi ha goduto a metà non l’ha capito fino in fondo.
I peccatori
Ryan Coogler
È forse questo il primo titolo “caldo” del 2025? Pare di sì. Dopo Prossima fermata Fruitvale Station e i due Black Panther, Ryan Coogler si riconferma il cantore dell’America al tempo del Black Lives Matter. Ma con l’arguzia e il talento di non fare comizi, bensì di inventare cinema. Tra Il colore viola e uno zombie movie, I peccatori è, ad oggi, il suo film più ambizioso e centrato. Il resto lo fanno il “doppio” Michael B. Jordan e le musiche/canzoni di Ludwig Göransson & Co. Ci si vede agli Oscar 2026.
Queer
Luca Guadagnino
È un capolavoro incompreso da molti il viaggio di Luca Guadagnino dentro il libro – e il mondo – di William S. Burroughs. Il suo “diverso” (un Daniel Craig semplicemente monumentale: vergogna, Academy!) è colui che si sentirà per sempre solo, ma che non riesce a non credere nell’amore come (im)possibilità di salvezza e redenzione. Sontuosa ricostruzione a Cinecittà di Città del Messico, star nascenti come solo Mr. Chiamami col tuo nome sa fabbricare (leggi: Drew Starkey) e un finale pittorico e struggente. Verrà capito col tempo.
A Real Pain
Jesse Eisenberg
All’opera seconda, Jesse Eisenberg firma un film che mescola famiglia e ricordi, sull’onda della memoria della Shoah ma con l’urgenza di raccontare la difficoltà di vivere i sentimenti oggi. E consegna a Kieran Culkin il ruolo (cinematografico) della vita, per cui ha meritatamente vinto l’Oscar come miglior non protagonista. Cinema classico, scritto magistralmente, di fronte a cui è impossibile non commuoversi.
Il seme del fico sacro
Mohammad Rasoulof
L’Iran di oggi? Un Paese che sembra trovare come unica strada la cultura violenta e patriarcale di chi l’ha reso un regime. Mohammad Rasoulof parte come se stesse filmando un Kammerspiel famigliare, e poi piazza un semplice espediente che ribalta tutto, fino all’escalation. Non è tutto così l’Iran: c’è anche quello che resiste, come questo. Attraverso il cinema. Da (ri)vedere, oggi più che mai.
The Shrouds – Segreti sepolti
David Cronenberg
Un altro capolavoro incompreso (o quantomeno invisibile) è quello del maestro canadese. Che parte dall’elaborazione di un vero lutto (la morte di sua moglie Carolyn nel 2017) per piazzare un’altra visione più straziante che disturbante. La definizione di “body horror” per il suo cinema non gli piace, ma qui al corpo si unisce l’orrore – realissimo – di cosa abbiamo dentro, e non vogliamo/possiamo affrontare. Non chiamatelo film-testamento.
La trama fenicia
Wes Anderson
Wes Anderson fa sempre lo stesso film? Per lui no, e nemmeno per noi. E se qualcuno non è d’accordo, ci dispiace per lui. Questo comedy-thriller in salsa mediorientale, oltre a partire da uno spunto dolcemente autobiografico, è il titolo che spinge l’autore delle simmetrie “accidentali” verso territori dark, politici, perfino gore. Mantenendo la sua cifra, il suo cast strepitoso e momenti di Cinema altissimo (vedi i titoli di testa dall’alto, al ralenti). Chapeau.
L’uomo nel bosco
Alain Guiraudie
Fra i tanti film francesi – ahinoi come sempre poco visti dal nostro pubblico – da segnalare quest’anno, spicca quello che i Cahiers du Cinéma hanno messo al primo posto della classifica dell’annata. Sicuramente il più “duro e puro” di tutti. Alain Guiraudie non ha perso il graffio, e compone un teorema sociologico, erotico e venato di nero decisamente irresistibile. Che assomiglia soltanto al suo cinema.