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I grandi divi del cinema: John Wayne, lo yankee tutto d’un pezzo

Icona western, patriota, ‘uomo forte’. Ma anche attore che ha saputo incarnare il ’900 americano nelle sue contraddizioni. Fino a restarne, forse, travolto

Foto: Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images

Trasferitosi ragazzo in California, John Wayne (1907-1979), comincia a frequentare Hollywood, ed ecco gli incontri decisivi: Tom Mix, cowboy del muto, Raoul Walsh e John Ford. Alto un metro e 93, imponente, è all’inizio un perfetto stuntman. Quindi diventa comparsa, e poi, piano piano, attore. Il suo primo ruolo accreditato risale al 1930, quando recita nel Grande sentiero di Walsh, anche se compare già nel 1926 nel film di Jack Conway, Brown of Harvard. Dopo alcuni film poco significativi, nel ’39 Ford gli dà la grande occasione col ruolo di Ringo in Ombre rosse. Il film che nobilitò un genere considerato minore. John lega da allora il suo nome a una serie di western classici diventando il più importante testimone del genere. Ecco i titoli: Rio Bravo, Il massacro di Fort Apache, I cavalieri del Nord-Ovest, Sentieri selvaggi, L’uomo che uccise Liberty Valance con John Ford; Il fiume rosso, Un dollaro d’onore, El Dorado, Rio Lobo con Howard Hawks. L’eroe naturalmente non opera soltanto sulla frontiera, ma anche nella guerra. Eccolo dunque in pellicole importanti, di opportuna propaganda in quel tempo, come Gli eroi del Pacifico e I sacrificati.

Il suo personaggio ha dunque preso forma: una sorta di giustiziere che raddrizza torti individuali, collettivi e nazionali. Non ha le sfumature di un Gary Cooper, ma non è neppure il portatore monocorde di un unico messaggio. Nel 1952, ancora grazie al suo amico John Ford, stupisce tutti nel ruolo dell’amoroso in Un uomo tranquillo, fra i massimi capolavori generali del cinema. Il grande bacio nel vento, dinamico e (quasi) violento con cui strega la rossa Maureen O’Hara è una sequenza da cineteca, pari al leggendario bacio a rate fra Grant e Bergman in Notorious.

Nella pratica corrente degli anni ’70, quando tutto si era capovolto e nel western i buoni erano diventati gli indiani, di Wayne si cominciava a parlare (e scrivere) dicendo che non aveva mai indossato una divisa in vita sua. Si disse che era fascista e reazionario. Tutte idiozie. È vero che John stava sistematicamente dalla parte del candidato repubblicano, è vero che credeva nei valori della patria e della famiglia. Ed è vero che identificava sé stesso coi propri ruoli. Ma tutto ciò può essere inteso come elementare e fin troppo criticabile espressione di uno yankee tutto d’un pezzo. Ma è stato talmente ingenuo e onesto che ciò che vale di lui è l’eroe portatore di giustizia, nei film.

Katharine Hepburn, in Torna El Grinta, dopo una certa diffidenza iniziale dichiara tutta la sua stima, e passione, per un uomo sempre pronto a proteggere i deboli. Eppure Katharine aveva speso una carriera a non apprezzare gli… uomini forti. Nel ’67 Wayne ha diretto Berretti verdi, l’unico film apologetico dell’intervento in Vietnam degli USA. È stato un errore, ma da patriota-in-buona-fede. Nel ’68, a sessantun anni, all’attore veniva finalmente attribuito l’Oscar, con il poco memorabile Il Grinta. Era un atto dovuto. Nel Pistolero, il suo ultimo film, Wayne ha il cancro. A diagnosticarglielo è il medico James Stewart, altro magnifico uomo del West, altro falco patriota. Ma per John c’è un ultimo torto da raddrizzare. Siamo ormai all’inizio del Novecento, il West non è più quello dell’epica. Il pistolero va all’ultimo duello in tram. Tramontava John e tramontava il western. E Wayne, che il cancro l’aveva davvero, guardava in faccia la propria fine, questa volta eroe completo, non solo nei fotogrammi. Poco dopo moriva.

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