I Beach Boys non sono stati soltanto mare, sole e ragazze in bikini | Rolling Stone Italia
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I Beach Boys non sono stati soltanto mare, sole e ragazze in bikini

Lo racconta ‘The Beach Boys’, il documentario (su Disney+) sui fratelli Wilson & C., cantori di una certa America e di una generazione, e delle sue ultime estati felici. Prima che la Storia spazzasse via tutto (e valutasse un po’ troppo frettolosamente anche loro)

I Beach Boys non sono stati soltanto mare, sole e ragazze in bikini

I Beach Boys nel 1964

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images courtesy of Disney+

Era doveroso, prima o poi, raccontare la storia dei Beach Boys in un documentario. È successo, lo si trova su Disney+, dove è atterrato il 24 maggio, e c’è da dire che ha dei quarti di nobiltà non indifferenti. Dirige infatti Frank Marshall (a quattro mani con Thom Zimny), già regista di Alive – Sopravvissuti, ma soprattutto per molti anni partner produttivo di Kathleen Kennedy, oggi presidente della LucasFilm, e soprattutto di Steven Spielberg. Marshall è un pezzo da novanta di Hollywood, ma in questo caso è prima di tutto un sincero e appassionato fan della prima ora dei Beach Boys, come lui stesso ha raccontato nel corso di una serata evento agli Abbey Road Studios di Londra, dove ha presentato il film insieme a Mike Love e Bruce Johnston, due dei Beach Boys. «Sono cresciuto a Newport Beach, che era a sud di Hawthorne, dove sono nati e cresciuti i Beach Boys. Ero appassionato di surf e di musica surf. Andavo alla Rendezvous Ballroom con Dick Dale, ma a quei tempi la musica surf era strumentale. E ricordo il giorno in cui ascoltai per la prima volta Surfin’ dei Beach Boys, qualcuno aveva aggiunto un testo alla musica surf e mi sembrava bellissimo». E non solo a lui.

Per chi non lo sapesse, i Beach Boys sono una band di famiglia, i Wilson (Brian, Carl e Dennis), a cui si aggiunse quasi subito il cugino Mike Love e in seguito un amico di quest’ultimo, Al Jardine. La musica dei Beach Boys era basata sull’armonizzazione delle voci, su questo aveva lavorato Brian Wilson dal primo momento, quando a 16 anni ha incominciato seriamente a pensare che avrebbero potuto mettere su una band. La cultura surf arrivò di conseguenza, grazie soprattutto a Dennis, il più giovane dei fratelli e maggiormente interessato a quello stile di vita. Ma ridurre i Beach Boys a quel periodo e a quel genere è stato il grande errore che molti hanno fatto per lunghi anni. Come spiega bene il documentario, quei ragazzi californiani hanno portato un sogno di libertà fatto di sole, mare, musica e ragazze in bikini (nonché figaccioni in pantaloncini che volano su una tavola sull’acqua) anche nel più remoto e inospitale luogo degli Stati Uniti.

I Beach Boys negli anni ’60. Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images courtesy of Disney+

Tutto questo in un decennio in cui in rapida successione sarebbero stati uccisi John e Robert Kennedy, Martin Luther King, alcune centinaia di migliaia di giovani che invece di solcare le onde dell’Oceano Pacifico furono mandati nel Sudest asiatico a combattere il comunismo, non si sa bene perché. Coppola le tavole di surf le fa portare sugli elicotteri al 7° Cavalleggeri dell’Aria, qualche anno prima John Milius (sceneggiatore di Apocalypse Now) racconta quella straordinaria stagione, e anche tutte le sue storture, in Un mercoledì da leoni. I Beach Boys hanno contribuito a creare un’epica, mentre loro in realtà erano solo cinque ragazzi che volevano fare la loro musica. O meglio, quella di Brian, mentre Mike scriveva i testi. Come quella notte in cui «scrivemmo Good Vibrations, che per me è la positività incarnata. La mattina il presidente Kennedy fu portato all’ospedale di Dallas. La registrammo il 1° gennaio del 1964 e l’emozione di quell’evento era con noi in studio».

Sarebbero potuti essere una band-guida per un’intera generazione spezzata, preferirono essere semplicemente dei ragazzi che volevano fare la loro musica, e non senza problemi. Quelli di Brian soprattutto, un genio fragile, totalmente dedicato alla scrittura, ma inadatto alla vita della popstar. Lasciò il palco per lo studio, e per fortuna, dato che questa scelta gli permise di scrivere uno dei più grandi album della storia della musica, Pet Sounds, che poi fu d’ispirazione ai Beatles per Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, come racconta Bruce Johnston. «Fui invitato ad andare a Londra per far ascoltare Pet Sounds a un po’ di gente. Keith Moon mi conosceva e conosceva la band, vi giuro che il suo più grande sogno era entrare a far parte dei Beach Boys. A un certo punto nella mia suite arrivarono Paul e John per ascoltare Pet Sounds, e lo trovarono favoloso». Perché lo è, ancora oggi uno dei più incredibili LP mai scritti e prodotti.

Brian Wilson durante le registrazioni dell’album ‘Pet Sounds’ nel 1966. Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images courtesy of Disney+

E naturalmente non ebbe successo, come spesso accade. Ma la ragione di quest’incomprensione era legata all’immagine stessa della band. Loro erano gli eroi del surf, il pubblico americano – e soprattutto la discografica – voleva che continuassero a essere quegli spensierati ragazzi californiani. Che tanto spensierati, a dire il vero, non erano più. Brian si era sposato, ma soffriva anche di non pochi problemi nervosi, che lo hanno accompagnato per tutta la vita (consiglio la visione dell’ottimo Love & Mercy, con Paul Dano e John Cusack che interpretano Wilson in due diversi e importanti momenti della sua vita). Dennis, che introdusse i fratelli all’LSD, era un ribelle con curiose frequentazioni, soprattutto quella con un tal Charles Manson, una cui canzone divenne una B-side di un 45 dei Beach Boys. Fu Dennis a presentare Manson al produttore musicale Terry Melcher, quello che gli adepti di Manson pensavano di trovare nella casa dove morì Sharon Tate incinta all’ottavo mese.

E come in tutte le storie di famiglia, quando ci stanno di mezzo i soldi le cose finiscono male. Murry Wilson, il patriarca, a un certo punto decise di vendere i diritti delle canzoni e intascarsi i soldi, perché pensava che il business di famiglia stesse per naufragare e quindi meglio andare alla cassa. La cosa naturalmente creò fratture insanabili, ma si sa, ogni grande band ha una storia alle spalle. The Beach Boys, il documentario intendo, è un prodotto costruito come piace al pubblico delle piattaforme, con il suo cold opening, ovvero un sunto di quello che si sta per vedere, molte interviste talking heads, e soprattutto tanto magnifico materiale d’archivio. È commovente a tratti, convenzionale nel suo complesso, ma efficace nel restituire una cultura e un periodo fondamentali nella Storia del XX secolo. E soprattutto per insegnare ai più giovani che insieme ai Beatles, ai Rolling Stones e agli altri grandi della musica britannica degli anni Sessanta, a migliaia chilometri di distanza c’erano questi ragazzi, neanche particolarmente belli, che con la loro musica facevano ballare gli adolescenti americani nelle loro ultime estati felici.