I 120 anni di Alfred Hitchcock, (criticato) genio immortale | Rolling Stone Italia
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I 120 anni di Alfred Hitchcock, (criticato) genio immortale

Il problema con i giganti è che più passa il tempo, più diventa difficile trovare qualcosa di nuovo da scrivere su di loro. Un omaggio al genio di 'Psyco', senza di lui staremmo ancora a guardare discutibili trilogie d'azione coreane

I 120 anni di Alfred Hitchcock, (criticato) genio immortale

Alfred Hitchcock

Foto: Wikimedia

Oggi, Alfred Hitchcock avrebbe compiuto 120 anni. È morto che ne aveva 81, 54 dei quali passati sul set a dirigere quelli che a conti fatti saranno una sessantina di film, più di uno all’anno. Una notevole percentuale di questi sono entrati a buon diritto nella storia del cinema, e sull’opera di Hitchcock si sono scritti libri e libercoli, girati documentari, pubblicate interviste, analisi, papelli. Cosa c’è da dire nel 2019 che non sia già stato detto (probabilmente pure meglio) da qualcun altro negli ultimi cinquant’anni? Come si fa a fare gli auguri ad Alfred senza usare mai l’espressione “maestro del brivido”?

Per esempio, mi piace l’idea di citare le parole dei critici del New York Times e di Esquire su Psyco, che dal 1992 è custodito nel National Film Registry americano come “opera culturalmente, esteticamente o storicamente significativa”. Eccole:

«[Il film] è una macchia su una carriera onorevole».

«Niente più che una puntata di una di quelle serie Tv, spalmata su due ore».

C’è poi anche la meravigliosa vicenda di Caroline Lejeune, che non solo uscì dalla proiezione stampa del film, ma diede immediatamente le dimissioni dall’Observer. Disgustata.

Oppure, ancora meglio, quello che Variety, il Los Angeles Times e il New Yorker scrissero su La donna che visse due volte, indicato nel 2012 dal British Film Institute come “il più grande film mai fatto”:

«[Arrivati al finale] sono già passate due ore, e ci si chiede se fosse davvero necessario dedicare così tanto tempo a quello che di fatto è un semplice “psychological murder mystery” [non fatemi la cattiveria di chiedermi di tradurlo in modo efficace, nda]».

«[Il film è] troppo lungo e si perde in un labirinto di dettagli».

Ora, è vero che è troppo facile prendere in giro uno svarione dall’alto del nostro senno di poi. La storia dell’arte, in effetti, è piena di robe che parevano brutte finché non ci siamo accorti che erano belle. Un esempio? Il tizio che bollò i Beatles come “fenomeno passeggero”. Lui sarà probabilmente stato il primo a ridere di se stesso e del suo errore di giudizio. Il rapporto conflittuale di Hitchcock con certa critica e la sua successiva rivalutazione a opera di tutti è cosa nota a ogni studente di cinema, e credo una nozione abbastanza universale da essere arrivata a chiunque abbia un interesse anche passeggero per la settima arte. Eppure, non posso fare a meno di pensarci ogni volta che leggo lodi a, che ne so, Christopher Nolan che ha ridato dignità a un tizio in calzamaglia da pipistrello, o a David Fincher che ha costruito una carriera sulla stimolazione dei follicoli sulle braccia dello spettatore.

Mi spiego. Nessuno, neanche i suoi più feroci detrattori, ha mai messo in dubbio il talento di Hitchcock, né l’impronta personale, profonda, autoriale che marca ogni sua opera. In un certo senso non è mai esistita una vera “critica contro”: al netto del giudizio sulle singole opere, e della considerazione che persino lui ha sbagliato qualche film qui e là, Hitchcock è sempre stato considerato “uno dei grandi”, se non altro in virtù del suo costante successo al botteghino.

Ed è proprio qui che sta l’inghippo e il motivo per cui oggi un fan dell’horror, o del thriller, o dell’action, dovrebbe chinare il capo in segno di rispetto ogni volta che si nomina il nostro.

Brian Moore, romanziere e sceneggiatore irlandese che insieme a Hitchcock scrisse Il sipario strappato, in un’intervista ai Cahiers du Cinéma, di lui disse: «[…] è bravo, sa fare il suo lavoro. Sa benissimo che non sta facendo arte e non fa finta che non sia così. Ha un unico standard, che è l’opposto di quello dei Cahiers, e cioè: “Questo film farà soldi o no?”». Ecco qual è il punto: non c’è motivo per cui inseguire il successo economico e fare Arte debbano essere in contrasto. Il cinema è un’industria, e se milioni di persone apprezzano un’opera questo non la rende automaticamente merda intorno a cui ronzano le mosche. Non esistono due modi diversi e inconciliabili per fare cinema: è di questo che Hitchcock è riuscito infine a convincere – aiutato da tutti i Truffaut di questo mondo, d’accordo – anche i più pervicaci critici della massa intesa come “popolo bue”.

E quindi: non è necessaria un’agenda o un supporto ideologico o una teoria per elevare un film. Sono storie, e le storie parlano di esseri umani. E il modo migliore per parlare degli esseri umani è far fare loro delle cose, non far loro indossare il costume da metaforone per aggiungere strati e livelli di lettura e interpretazioni. Il racconto stesso è tutto il livello di lettura che serve, ogni azione e ogni reazione ci dicono qualcosa su di noi, e se queste azioni e reazioni sono omicidi, violenze, inseguimenti, rapimenti, beh, perché dovrebbero avere meno dignità o dire cose meno interessanti solo perché si allontanano dalla quotidianità e dalla consuetudine? Non arrivo a dire che sia stato il primo, ma di sicuro Alfred Hitchcock è il poster boy dello spesso vituperato “cinema di genere” perché non ha mai provato a staccarsene, a rinnegarlo, a elevarsi. Era un tizio con tante idee e tante cose da raccontare, informate dalla sua strettissima educazione cattolica, dal suo atavico terrore nei confronti di ogni forma di autorità, dal suo rapporto controverso con il sesso in generale e con il sesso femminile in particolare (tra poco ci torniamo), e declinava queste idee sotto forma di quello che oggi chiamiamo thriller, horror, mystery, etichette che spesso sottintendono un giudizio del tipo “bel film ma…”.

Hitchcock ci ha regalato – e ha insegnato ai critici ad apprezzare, fingendo che non esistessero – l’idea di “bel film punto”, e non credo sia un azzardo affermare che senza di lui, i suoi detrattori e i suoi rivalutatori, opere come L’esorcista, o Alien, o Rambo non avrebbero goduto del successo anche di critica che hanno avuto. Il “grazie” finale, quindi, nel giorno del 120esimo compleanno di un morto, nonché uno dei più grandi registi di sempre, è da parte di tutti noi a cui piace il cinema delle esplosioni e del sangue e dei peli ritti sulle braccia, che senza di lui saremmo ancora nascosti nelle nostre catacombe a guardare di nascosto discutibili VHS di altrettanto discutibili trilogie d’azione coreane.

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