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Ho visto ‘Avatar 2’ sotto funghetti: è andata così

‘La via dell’acqua’ come (letteralmente) non l’avete mai visto. Una recensione psichedelica

Foto: 20th Century Studios

Sono strafatto.

Origlio queste parole mentre entro nell’AMC Cinema dell’Universal CityWalk di Hollywood, sorpreso di non essere la persona che le sta pronunciando. Perché anch’io sono letteralmente strafatto: i funghetti alla psilocibina che ho ingollato nel bagno del vicino Margaritaville mezz’ora fa stanno cominciando a fare effetto. E ora sono parte della folla che si riversa nella sala IMAX per una proiezione pomeridiana di Avatar – La via dell’acqua. Il mio posto è in quarta fila.

L’assurdità di prendere dei funghi allucinogeni prima di vedere questo film sta nel fatto che, ovviamente, non ne hai davvero bisogno: i colori ipersaturi, il suono immersivo e gli avanguardistici effetti 3D sono pensati per agire esattamente come delle droghe, lavorando sul tuo sistema nervoso per produrre dio sa cosa. Ma aggiungere quei funghetti mi serve per un paio di motivi. Il primo è che non ho mai visto il primo Avatar: all’epoca mi sentivo “troppo figo” per farlo; essere sotto funghetti mi può forse aiutare, dal momento che non ho nessun riferimento su trama e personaggi. Se poi avessi una crisi di nervi e dovessi correre fuori dalla sala per andarmi a nascondere in un Taco Bell, sarebbe la giusta espiazione per non aver visto il primo capitolo tredici anni fa. Ma più di tutto, voglio vedere se il mio trip interiore riesce ad entrare in sintonia con le visioni che mi ritroverò di fronte, esattamente come i Na’vi usano i loro dread per connettersi con le altre creature – o qualsiasi cosa facciano con quei cazzo di spinotti.

Non cercate di spiegarmelo. Non me ne fotte niente di come funziona Pandora. Le risorse presenti su quel pianeta, la Madre Terra, il concetto di “avatar” in sé… chi se ne frega. Lo stesso vale per la trama, che mi sono rifiutato di studiare. Ma se sono tra i tanti che possono sedersi a vedere queste tre ore e rotte di screen-saver da 350 milioni di dollari, probabilmente non sono l’unico che non si raccapezza con quello che La via dell’acqua vuole raccontarti. La parte più divertente del film, va detto, è quando vedo il tizio accanto a me con gli occhi sul suo smartphone.

“Immagina di scommettere contro James Cameron”. È questa la frase che rimbalza tra gli esperti e gli appassionati di cinema su Twitter, dove una certa antipatia per i blockbuster da vedere ingurgitando popcorn è superata solo se lo spettacolo è fatto a regola d’arte. Se gli arbitri del gusto liquidano sempre i film Marvel come prodotti caotici e pensati solo in virtù dell’algoritmo, Cameron è un mastro artigiano capace di architettare un mondo che non si può rifiutare. Il film è iniziato da poco più di un’ora, e io ho fatto il doppio errore di sottostimare sia il suo autore che i miei funghetti. Perciò ne mangio ancora qualcuno.

Come tutti i consumatori di allucinogeni sanno, la frase “Questa roba non è male” conduce ben presto alla domanda “Ma che cazzo ho fatto?!”. Il mio destino è segnato per sempre in un momento preciso, cioè quando alcuni membri della famiglia di Jake Sully stanno cercando di fuggire dai cattivi che hanno assunto le sembianze dei Na’vi e che li hanno presi come ostaggi. Poco dopo, il figlio adolescente e problematico di Jake fa amicizia con un solitario tulkun, una specie di incrocio tra una balena e una lumaca di mare. L’effetto fa molto grafica Trapper Keeper anni ’90. Niente ormai può distruggermi.

Un’immagine di ‘Avatar – La via dell’acqua’ di James Cameron. Foto: 20th Century Studios

Quell’illusione viene però infranta quando i cattivi, che nel frattempo si sono alleati con un gruppo di biologi neozelandesi (?), si mettono a caccia dei tulkun per stanare Jake. Dopo essermi fatto cullare dalla tranquilla biosfera marina di Pandora, ritrovo quello scenario invaso da grossi macchinoni e tutti i tipi di imbarcazioni e sommergibili che Cameron ha potuto inventarsi dal 2009 a oggi. Le due fazioni finiscono per scontarsi in una monumentale battaglia in cui creature volanti si abbattono contro persone in tute tecniche, il mare viene invaso da sangue e petrolio, e io – col corpo scosso da quella che, lo posso dire, è vera paura – che mi sciolgo dentro la poltrona. È troppo tardi per scappare, dunque mi arrendo a quello che sta succedendo davanti ai miei occhi.

È solo molto più tardi, quando in qualche modo mi riprendo, che riesco ad analizzare quel mio bisogno di fuga. Quando la mia ragazza – una santa – viene a prendermi fuori dal centro commerciale, tutto quello che riesco a dirle è: “James Cameron non è umano”. “Cosa vuol dire?”, mi chiede lei. Immagino intenda che, arrivati a un certo punto, sullo schermo non c’era più nessun essere umano in grado di darti le informazioni necessarie. La tecnologia era riuscita a superare un’altra soglia, toccando vette stupefacenti. Ho avuto una sensazione di slancio surrenale, e nessuna idea su cosa farci. L’interno del mio cranio è stato centrifugato fino ad essere completamente svuotato.

Anche se conscio della mia bocca spalancata e del mio battito di ciglia diventato lentissimo, ho smesso di pensare a me stesso come a un essere vivente (o quantomeno presente dentro quella sala). Tra le cose più ironiche del film c’è il tema della meditazione: i Na’vi devono rallentare il loro battito cardiaco e respirare profondamente, per entrare in simbiosi con l’ambiente acquatico, ma a noi non è affatto concesso di trovare quella stessa calma. Per lo stesso motivo, mi sono seriamente preoccupato per gli attori rimasti “loro stessi”: pensavo che fossero davvero in pericolo. Come hanno potuto Jemaine Clement e Edie Falco finire in mezzo a quel casino? Perché Cameron ha costretto Kate Winslet a restare in apnea per sette minuti? Le mie preoccupazioni erano forse la prova della qualità del prodotto, ma questa mia totale impotenza ha rinforzato la mia totale assenza.

Sì, ho raggiunto il livello della morte dell’Ego e la perdita dell’identità, nel picco della mia esperienza psichedelica. Che è coinciso con la più folle sequenza d’azione del secolo. È stato più o meno lì che il mio sguardo si è spostato sulla fila di poltrone di fronte a me, soprattutto su un posto al centro rimasto libero. Quando ho prenotato il mio posto ho visto, sulla mappa della sala, che davanti a me era stato preso un altro posto da un singolo spettatore. Chiunque fosse, non si è mai presentato.

Quello spettatore che non è mai arrivato mi ha perseguitato come un fantasma per tutta la durata della proiezione. Quel biglietto sprecato è diventato la perfetta metafora della mia totale assenza davanti al tumultuoso finale della Via dell’acqua – e il mio sospetto del fatto che, a parte per gli incassi, questo film in realtà non avrebbe bisogno di nessuno spettatore. Potrebbe esistere solo per sé stesso, o per soddisfare le diaboliche energie di Cameron, o ancora per testare i limiti della cinetica artificiale. Per alcuni, queste parole fanno di me un hater, ma non è così: sono rimasto seriamente impressionato – e qua e là, lo ammetto, inorridito – da questa visione. Mi sono alzato in piedi, sulle mie gambe ormai di gelatina, quando sono partiti i titoli di coda, e mi sono avviato verso il bagno per riversare insieme agli altri spettatori maschi i litri di pipì trattenuti per ore. Ho iniziato a vagare per CityWalk nella fresca aria della sera, divertito e irritato dal fatto che non riuscivo a trovare nessun posto che mi vendesse una bottiglietta d’acqua.

Torniamo a quella sera. Mads e io andiamo a una festa sulla terrazza di un amico, quel tipo di serata intima e senza pretesa di cui in questo momento ho davvero bisogno. Gli amici mi chiedono se il film mi è piaciuto, domanda a cui mi sembra impossibile rispondere. All’improvviso, sono grato per tutte le cose più ordinarie della vita, e mi ritrovo a fare affermazioni tipo: “James Cameron non riuscirà mai a disegnare una creatura bella come il mio gatto”. Sorrido, e mi ricordo che presto dovrò passare il Natale con la mia famiglia. Quello che penso del sequel di Avatar non ha importanza. Quello che conta è sapere che, alla fine di ogni viaggio, succede sempre la stessa cosa: sei riuscito a tornare a casa.

Da Rolling Stone USA

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