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Henry Mancini, i 100 anni di Mr. Music

Formatosi nelle band che cercavano di far divertire gli americani dopo la guerra, il grande compositore non ha mai dimenticato quegli inizi. E ha portato l’artigianalità delle orchestre swing anche sullo schermo, dove ha lasciato partiture iconiche. Vedi ‘Colazione da Tiffany’ e ‘La Pantera Rosa’

C’è una sequenza memorabile, ormai entrata nella storia del cinema, che senza il suo contrappunto musicale, la sua funzione ritmica tesa ad enfatizzare la tensione di ciò che unicamente lo spettatore poteva osservare e conoscere a discapito dei due soggetti inquadrati, non sarebbe stata uno dei primi grandi esempi di piano sequenza cinematografico. Stiamo parlando di uno dei film più memorabili della cinematografica di Orson Welles, L’infernale Quinlan (Touch of Evil) del 1958.

A dare letteralmente funzione visiva ed estetica a ciò che accadeva in scena, incrementando la trepidazione per ciò che sarebbe successo allo scoppiare della bomba caricata sulla macchina del noto imprenditore terriero dando il là alla narrazione, fu la composizione di un giovane musicista che aveva iniziato solamente sette anni prima la sua carriera nel mondo cinematografico come membro del music department della Universal, ottenendo dopo soli tre anni la prima candidatura all’Oscar per la musica originale della Storia di Glenn Miller. Il suo nome era Henry Mancini.

Formatosi alla celebre accademia Juilliard di New York fino al 1944, la vera luce per Mancini arriva diventando pianista e arrangiatore della celebre Glenn Miller Orchestra dopo la dipartita dello stesso autore, di cui il compositore di Cleveland ne saprà raccontare perfettamente l’anima musicale nel film a lui dedicato del 1954 che, come visto, gli varrà la prima candidatura agli Academy Award.

In quel contesto così apparentemente conservatore che sembravano essere le orchestre da ballo alla fine degli anni ’40, Henry Mancini imparerà letteralmente l’arte dell’arrangiamento, la sua grande capacità di adattarsi costantemente allo spartito filmico che gli conferirà nel tempo quella stravaganza unica, quei ritmi sincopati cari alla musica blues e swing, così come nell’esplorazione dell’estetica musicale afro-cubana, che gli darà negli anni il titolo di Mr. Music.

Come ricordava lo stesso compositore nella sua autobiografia Did They Mention the Music?: “A quei tempi la gente usciva molto a ballare. C’erano migliaia di band in tutto il Paese, composte da formazioni che andavano dai quattro ai quindici membri. E c’erano molti negozi di musica che vendevano spartiti generici non eseguibili per più sezioni, per questo era compito dell’arrangiatore creare flessibilità in questi grafici, per renderli riproducibili da qualsiasi numero; le azioni erano scritte in modo tale che alcune parti potessero essere omesse. Armeggiando e sperimentando in questo modo potei acquisire una comprensione pratica di come funzionava l’orchestrazione e di come poteva essere modificata all’infinito per soddisfare le proprie esigenze”.

Per questo il tocco abile e l’istinto sonoro di Mancini gli furono basilari nel suo primo lavoro a Hollywood come compositore presso gli Universal Studios, nella fucina di talenti supervisionata dal direttore d’orchestra di origine russa Joseph Gershenson. Mancini lavorò duramente e assiduamente negli anni ’50 a molteplici film che ne definirono l’estro e l’accuratezza compositiva, e questo fu merito anche di una pratica che oggi, ormai, rimane solo un vecchio ma bellissimo ricordo. In quegli anni, infatti, le produzioni assumevano direttamente i propri compositori contrattualizzandoli e mettendoli al centro della creazione di un sound che avrebbe dovuto definire nel tempo lo stile della stessa casa di produzione. Un marchio di fabbrica sonoro da poter riprodurre costantemente. Ciò comportava sì una mole di lavoro non indifferente e una visione musicale standardizzata, ma la varietà di generi a cui venivano sottoposti i giovani e rampanti musicisti, per usare le stesse parole di Mancini, diventava di conseguenza il più grande apprendistato che avessero mai potuto intraprenderem, tanto da diventare la base da cui poter attingere da lì in futuro.

Lo stile inconfondibile che si stava formando era perfettamente in controtendenza con ciò che i suoi colleghi avevano eretto a standard dell’industria negli anni successi all’avvento del sonoro nel 1925, persuasi dell’eroismo romantico che stava letteralmente scomparendo lasciando spazio all’esplorazione psicologica del modernismo di Bernard Hermann e Alex North sino alla creazione della gloriosa commedia americana di cui fu artefice lo stesso Mancini.

Se pur per un breve periodo lasciò il cinema per dedicarsi al mondo televisivo – vedi la creazione dell’iconico tema musicale del detective Peter Gunn, con cui vincerà il suo primo Grammy (a proposito, durante la sua prima registrazione il pianoforte venne suonato da un giovane compositore di 26 anni primo assistente di Mancini, un certo John Williams) e diventato celebre anche per il suo utilizzo come main theme dei Blues Brothers – Mancini riusciva a consolidare sempre di più la sua visione musicale ricca di elementi brillanti e iconici del suo tempo, dai tempi scomposti di matrice blues swingata alle poesia tonali pianistiche, affidandosi nel tempo alla visione registica di uno dei padri della commedia americana come Blake Edwards, con cui lavorò a stretto a contatto per ben 35 anni.

Colazione da Tiffany, I giorni del vino e delle rose, La Pantera Rosa e Victor Victoria sono i titoli che gli valsero quattro premi Oscar sia nella categoria miglior colonna sonora originale (Colazione da Tiffany, Victor Victoria) che per la miglior canzone originale (Moon River, Days of Wine and Roses), insieme, in quest’ultima categoria, all’abile paroliere Johnny Mercer. Mancini entrò di diritto nella sfera dei grandi compositori del cinema contemporaneo, contribuendo non solo alla creazione di uno standard che ripercorreva gli stilemi orchestrali e narrativi/umoristici del grande musical di Broadway, ma arricchendolo di quel rinnovato modo di intendere la musica per immagini che con ironia e leggerezza cercava di indagare l’animo umano dagli anni ’50 in poi. Come scrive Nate Chinen per Criterion: “Come gran parte del cinema americano del dopoguerra che ha contribuito a dare vita, Mancini ha incarnato un’era nascente fatta di nuove libertà e nuove ansie, ma sempre con l’aria disinvolta di chi ha un totale autocontrollo. Ha lavorato instancabilmente per far sembrare che le sue partiture nascessero come per magica, sensuali e ingenue come la Venere di Botticelli”.

In quell’immagine musicale così nitidamente presente, come nei leitmotiv di grande impatto emotivo, si nascondeva la delicatezza di una nuova epoca cinematografica che stava bussando alla porta. Dall’armonica di Moon River che tratteggia l’albeggiare di New York sulla Fifth Avenue nell’iconica sequenza di Colazione da Tiffany in cui una malinconica Holly Golightly (Audrey Hepburn) consuma la sua colazione osservando le vetrine della gioielleria del titolo, all’accompagnamento del povero ispettore Clouseau (Peter Sellers) in cui i molteplici colori orchestrali ne mettono in risalto le stravaganti doti investigative, venivano mostrate apertamente l’ironia e la spensieratezza di un nuovo mondo da scoprire.

Il suo approccio musicale non era pomposo ma dedicato prettamente ad esaltare le doti narrative del film, sposando la sua musica alla visione narrativa del regista di turno. Ascoltando alcune sue composizioni si sente l’assoluta umiltà di prestare qualcosa all’immagine, di esserne parte attiva ma mai oltrepassando il limite tra ciò che dovrebbe essere la musica e ciò che vediamo sullo schermo. Il motivo delicato, divertente e comico nei suoi cambi ritmici rendeva lo spettatore parte attiva delle sue fasi emozionali, e il sorriso con cui Henry Mancini componeva era l’esempio perfetto di ciò che era per lui la musica.

Elencare le innumerevoli opere del compositore italoamericano sarebbe impossibile, arrivati oggi al centenario dalla sua nascita. Dai temi di Hollywood Party alla composizione per il David Letterman Show dell’atteso momento del Viewer Mail, passando per la collaborazione con Vittorio De Sica per I girasoli con Sophia Loren e Marcello Mastroianni nel 1970, con cui ottenne la decima candidatura all’Oscar su diciotto totali, Henry Mancini fu il figlio di una nuova Hollywood che con passione e lungimiranza ne costituì la stessa epoca d’oro. Continuando a rappresentare anche quelle piccole orchestre che tanto facevano divertire le nuove generazioni di americani in cerca di una nuova e ritrovata spensieratezza.

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