Prima o poi Guillermo del Toro doveva incontrare il suo destino, e quel destino ha un nome che gli echeggia in testa da quando aveva sette anni e vide per la prima volta Boris Karloff sullo schermo. Frankenstein. Non solo un mostro, non solo un classico, ma una figura che per lui è stata una rivelazione religiosa. «Mi ha fatto capire cosa fosse davvero un santo», ha detto il regista messicano. Il cattolicesimo fervente della sua famiglia non lo aveva aiutato a comprenderlo, quell’interpretazione della Creatura sì. Da allora, questo film è stata la sua ossessione. E ora, dopo decenni di carriera e di attesa, eccolo: l’adattamento che tutti volevamo vedere da Guillermo del Toro. E la verità è che valeva l’attesa.
C’è un altro dettaglio che sembra scritto dal destino stesso: il primo Frankenstein sonoro, il capolavoro di James Whale del 1931 starring appunto Karloff, fu presentato proprio alla prima edizione della Mostra di Venezia nel 1932, in concorso insieme a Il dottor Jekyll di Mamoulian. E sono passati 31 anni dall’ultima grande versione hollywoodiana del romanzo di Mary Shelley by Kenneth Branagh (con Bob De Niro as la Creatura!). All’82esima edizione, un nuovo Frankenstein torna al Lido, ed è quello di del Toro (who else?). Non è solo un cerchio che si chiude, è una reincarnazione: l’opera che ha segnato l’inizio del mito approda nello stesso luogo in cui si era rivelata al mondo, ma questa volta filtrata attraverso l’immaginario di un autore che ha fatto del gotico il suo linguaggio naturale. Strati su strati di predestinazione cinefila.
Perché Frankenstein non è solo un melodramma goth fatto della materia di cui è fatto del Toro. È un’opera totalizzante, un mondo intero ricostruito da zero, set montati per intero, favolosi tableaux vivants (come dipinge i funerali Guillermo nessuno mai), scenografie vive che diventano personaggi. È un kolossal artigianale: in conferenza stampa, Christoph Waltz ha sentenziato che «la CGI è da perdenti», e in un certo senso è diventata un po’ la dichiarazione di poetica di del Toro. Il digitale c’è solo quando il fisico non basta, ma il cuore è tangibile, materico, scolpito come la Creatura stessa, che nasce non da suture, bulloni e cicatrici, ma come una statua di alabastro, fragile, indifesa, destinata a segnarsi man mano che cresce. «Ci tenevo che non si vedessero i punti, volevo che fosse bello… ho pensato che sarebbe stato una Creatura perfetta».
Entering Jacob Elordi, col suo fisico imponente e un accento dello Yorkshire imparato da un vecchio saggio di campagna, che dà alla Creatura una monumentalità e insieme una fragilità inedite. Non è solo un mostro: è un bambino, un figlio, un’anima esposta. «La forma più pura di ciò che sono è racchiusa in quel personaggio. Lui è più me di quanto lo sia io stesso», ha spiegato. E in effetti il suo lavoro ha qualcosa di confessionale: ogni gesto è carico di innocenza e di dolore, ogni sguardo ti trafigge, ogni evoluzione nel guardaroba e nel corpo racconta una metamorfosi che non è più solo narrativa, ma autobiografica. Non più solo divo euphorico o saltburniano formato Gen Z, ma attore diplomato alla più antica università del cinema: quella di Venezia. Lui sa che la consacrazione d’auteur è arrivata: firma autografi in tutti i laghi, regala sorrisi e si lascia scappare la lacrimuccia davanti alla standing ovation (che, per la cronaca e per quel che vale, è durata ben 13 minuti, la più lunga finora) della Sala Grande. Awww.
Jacob Elordi (la Creatura) in ‘Frankenstein’. Foto: Ken Woroner/Netflix
Accanto a Elordi, Victor Frankenstein ha il volto tormentato e febbrile di Oscar Isaac. Un tour de force attoriale: più artista maledetto che scienziato “pazzo”, il suo entusiasmo maniacale non viene mai banalizzato come follia pura, ma reso nella sua doppiezza di uomo segnato dai traumi d’infanzia e schiavo della propria ambizione. È un Victor che ride mentre cade, e proprio per questo fa paura. A tenergli testa, Elizabeth: Mia Goth, contrappunto (forse un po’ evanescente) di inquietudine e compassione tra la Creatura e il delirio di Victor.
La regia è operistica, il tono unisce spettacolo visivo e intensità emotiva. I colori cambiano in una sinfonia (anche nell’ottima colonna sonora del “solito” Desplat) che è tanto cinema quanto pittura, tanto carne quanto sogno. Non siamo davanti a un adattamento reverente, ma a un classico reso stringente e contemporaneo dal suo messaggio. È gotico eppure pop, colto eppure accessibile, antico eppure urgente. E non è, come molti sospettavano, una metafora sull’AI. Del Toro lo ha chiarito con ironia: non lo spaventa l’intelligenza artificiale, ma la stupidità naturale: chapeau. L’attualità c’è, certo – viviamo tempi mostruosi, di terrore e intimidazione – ma la domanda resta quella che Mary Shelley scrisse a diciannove anni: che cosa ci rende umani? È un interrogativo oggi persino più urgente di allora, e che il film non chiude, non sterilizza, ma rilancia. Con una risposta che è il cuore dell’opera: il diritto all’imperfezione, a sbagliare, ad amare, a perdonare.
Foto: Ken Woroner/Netflix
Così Frankenstein diventa un film biografico, un’autobiografia mascherata, un confessionale a cuore aperto. È il film più personale di del Toro, quello che in fondo preparava da tutta la vita. E la Creatura di Elordi è una metafora dell’essere umano stesso: fragile, sbagliato, incompreso, ma capace di una purezza che il mondo non sa riconoscere. È un personaggio che ha più diritto all’umanità di chi lo rifiuta, che ci chiede con lo sguardo quello che Shelley ci chiede con le parole: di restare umani, soprattutto oggi.
Alla fine, Frankenstein è davvero il film che Guillermo del Toro doveva fare. Ma soprattutto, è il film che tutti volevamo vedere da lui. Perché non c’è autore contemporaneo che potesse incarnare così bene la disperazione, la fragilità e la sacralità della Creatura. E perché, in tempi in cui la tecnologia promette di replicare tutto, questo film ci ricorda che l’umanità non si può replicare. Si può solo raccontare, e il cinema serve ancora a questo.
