Rolling Stone Italia

Franco Maresco e una Mostra che ci obbliga a (non) de-pensare

‘Un film fatto per Bene’ dice che il cinema (non) è morto. Dopo dieci giorni, un bilancio ottimista su quello che Venezia 82 ci ha insegnato, tra mostri bellissimi e domande esistenziali

Foto: Lucky Red

“Non dobbiamo parlare di cinema”, dice Franco Maresco in quella magnifica ossessione che è Un film fatto per Bene, il film che chiude la cinquina degli italiani in concorso a Venezia 82 e anche, dopo dieci giorni di cinema e basta, ogni possibile dibattito su cos’è, oggi, il cinema, non solo visto da qui.

Ma detto, nella sua lucida follia, senza troppo pessimismo, anzi prima di volare, leggeri, e domandarsi, dopo tanto penare per mettere in piedi un film, le cose davvero importanti: “Sì, ma cosa ha fatto il Palermo?”, inteso ovviamente come squadra di calcio. Maresco, in questa (non) morte del cinema, ci mette dentro tutto. I santi e i mitomani, le sue compulsioni e le piccinerie di tutti. E i produttori, la Rai, Carmelo Bene, i sedicenti critici, il sistema cinematografaro italiano “dove un film non si nega a nessuno”, la stanza 50 dell’Hotel Europa, la partita a scacchi con la morte, e Cinico Tv che è stato il contenitore-anticipatore di cose che noi non potevamo sapere; non potevamo sapere che saremmo diventati davvero così brutti, che lo eravamo già.

Soprattutto, chiede ai suoi (non) attori, e di riflesso a noi, di “de-pensare”, verbo e parola bellissimi che indicano un tempo, il nostro, a cui siamo arrivati senza pensare di poterlo fare davvero; di poter davvero smettere di pensare, e allora tanto vale obbligarci a farlo.

Il cinema non è morto, ci dice Maresco, semplicemente “il cinema non esiste”, detto carmelobenescamente e in senso dunque metafisico, poetico e politico. Non esiste o forse de-esiste, o esiste in questa (non) forma, in questo modo sghembo e irresistibile di fare autofiction e dunque racconto collettivo, demistificazione e quindi ricostruzione.

La Mostra numero 82 ci ha detto, tra le tante cose, che per pensare dobbiamo de-pensare, o pensare lateralmente, diversamente. “Non dobbiamo parlare di cinema”, e difatti ciascuno ha scelto il suo, in questi dieci giorni di buonissimi film che fotografano il mondo che de-pensa, o che è costretto a farsi venire nuove idee.

La scelta della precarietà per raggiungere la propria vera natura al di là del ruolo professionale e sociale (À pied d’œuvre di Valérie Donzelli), che invece sbatte in un loop nerissimo il povero cartaio rimasto senza lavoro (No Other Choice di Park Chan-wook). Il ri-pensamento della guerra, che forse è già artificiale (A House of Dynamite di Kathryn Bigelow), o sicuramente più tragicamente reale della sua impossibile drammatizzazione (The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania). La stupidità che, per complottismo o pigrizia, finirà per farci estinguere per davvero (Bugonia di Yorgos Lanthimos) o farci offendere per tutto (il sottovalutato assai After the Hunt di Luca Guadagnino).

Mostri bellissimi (Frankenstein di Guillermo del Toro), stranieri che non sono sempre gli altri ma siamo noi (L’étranger di François Ozon), rocce che crollano col sorriso (Dwayne Johnson in The Smashing Machine di Benny Safdie). E una domanda che rimbalza dal primo giorno: “Di chi sono i nostri giorni?”. Se la fa il Presidente della Repubblica Toni Servillo nella Grazia di Sorrentino, ce la facciamo noi costretti a de-pensare quello che siamo stati finora. Per rispondere, volando sul Lido, che forse, tutto sommato, sì: i nostri giorni sono ancora anche del cinema che vediamo, dei film che diventiamo.

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