Fela, our personal Jesus | Rolling Stone Italia
Sorrow tears and blood

Fela, our personal Jesus

Con ‘Fela, il mio dio vivente’ Daniele Vicari compone un doppio ritratto, intimo e storico, del Messia dell’afrobeat e del suo apostolo italiano, raccontando l’Italia e l’Africa attraverso gli occhi puri di un sognatore

Fela, our personal Jesus

Fela Kuti in Nigeria

Foto: Cinecittà Luce

Michele Avantario è un personaggio che è un piacere scoprire, o riscoprire per chi già lo conoscesse. Videoartista, cresciuto culturalmente negli anni ’70 e professionalmente di conseguenza, pioniere dell’applicazione dell’elettronica alle immagini, ha lavorato con Nam June Paik e basta questo almeno a rendermelo un mito personale. Le sue passioni erano le immagini e la musica, trasformò entrambe le cose nel suo lavoro, diventando anche organizzatore di eventi e direttore artistico nel corso della sua carriera. Aveva un amore smodato per Fela Kuti, per la sua musica e il suo pensiero, ne fece negli anni una magnifica ossessione, lo conobbe, diventarono amici, lo riconobbe come un messia su cui non riuscì mai realizzare il film su cui lavorò per anni.

Tutto questo lo racconta Daniele Vicari in Fela, il mio dio vivente, documentario, bellissimo per inciso, realizzato utilizzando l’archivio di immagini di Avantario unito a una documentazione storica attenta e approfondita. Ne viene fuori un film che racconta non solo di Michele e del suo sanissimo mal d’Africa, ma soprattutto di noi, di quando Roma era uno dei centri multiculturali e multietnici più vivi d’Europa, di un’Italia che non riesce a togliersi di dosso l’anima colonialista occidentale e capitalista. Voce narrante del film, che interpreta Avantario, un magnifico Claudio Santamaria. Il film esce il 21 marzo, distribuito da Cinecittà Luce. Con Daniele Vicari, che presto tornerà sul set per un nuovo film, ho chiacchierato di questa sua avventura documentaria.

Fela Kuti con Michele Avantario. Foto: Cinecittà Luce

Daniele, Michele era un personaggio incredibile, ma in questo film ci sono tante altre suggestioni, a partire dalla memoria di un periodo aureo per chi lo ha vissuto, quello dell’Estate Romana inventata dall’assessore alla cultura Renato Nicolini, una stagione incredibile dal punto di vista culturale e mai ripetutasi con lo stesso fermento, a Roma e in Italia in generale.
La storia di Michele e della sua ossessione con Fela mi è sembrata un’occasione unica per raccontare quel mondo. Io sono venuto a Roma proprio nel 1984, l’anno del concerto di Fela durante quella che fu di fatto l’ultima edizione dell’Estate Romana di Renato Nicolini. Quando sono stato contattato da Renata Di Leone, che aveva questi archivi di Michele che voleva usare con l’intenzione di fare un film su Fela Kuti, non ero molto convinto, perché era difficile fare qualcosa di meglio di Finding Fela, il documentario di Alex Gibney. Ma guardando i materiali mi sono reso conto che la cosa interessante era lo sguardo, con il suo filtro artistico, di Michele su quello scorcio di Storia d’Italia e poi sull’Africa. Avantario ha provato a fare un film impossibile e questo mi ha permesso di fare una riflessione sul cinema. Michele era un videoartista, apparteneva alla generazione che pensava che il cinema ormai fosse morto, lo dicevano e lo scrivevano tutti negli anni ’80, si pensava che sarebbe stato sostituito dal videotape. Io stesso, che ero all’università nella seconda metà di quel decennio, me ne sono occupato, avrei dovuto fare una tesi proprio sul cinema, l’elettronica e la videoarte, perché si pensava che l’elettronica avrebbe soppiantato il cinema, ma poi è arrivato il digitale che ha seppellito l’elettronica. La cosa interessante delle immagini di Michele è che utilizza la videocamera come un taccuino per gli appunti, e anche se voleva fare un film di finzione – aveva addirittura scritto una sceneggiatura – il suo punto di vista artistico è una contraddizione della finzione.

C’è un’evoluzione nella qualità delle immagini degli archivi di Michele che va di pari passo con l’evoluzione dei formati. Ma mentre le immagini sono più nitide, è il mondo a decadere, politicamente, culturalmente, socialmente.
Quando si fa un film di montaggio bisogna stare molto attenti ai formati. Michele li ha utilizzati tutti, dal VHS fino al DVCam, che ha già in sé il digitale, e l’evoluzione dei formati racconta come si evolve il mondo intorno. Ma cambia anche l’idea di cinema e documentazione che c’è dietro. Le prime volte a Lagos, Michele accende la camera, la lascia per terra e la fa andare fino alla fine del nastro, riprendendo quello che viene in un’inquadratura bloccata. Ma questi minuti sono di un estremo interesse perché costituiscono un punto di vista “oggettivo” su quella realtà. Ci sono altre riprese fatte con una handycam, credo formato VHSc, perché la qualità è veramente molto bassa, che si porta appresso quando va in giro per la città, un po’ nascondendola, con l’obiettivo spesso abbassato a 45°. Questi sono i suoi appunti, come dicevamo, e c’è una libertà dietro che mi ha colpito. Ho cercato di raccontare proprio questa libertà abbiamo un po’ perduto.

Fela Kuti durante un concerto. Foto: Cinecittà Luce

È vero, c’è all’inizio una timidezza dello sguardo della telecamera che progressivamente si alza per poi guardare in faccia e scoprire questo mondo. Michele ne viene rapito, affetto dal classico mal d’Africa.
Credo che Michele, almeno stando a quello che ha scritto e che ha lasciato filmato, si sia lasciato penetrare da quella cultura. Michele è portatore di una totale mancanza di colonialismo che è invece in molti film che oggi facciamo sull’Africa, in cui dobbiamo raccontare che li salviamo, anche inconsciamente lo raccontiamo perché ci consideriamo superiori. L’immigrazione l’abbiamo raccontata quasi sempre dal nostro punto di vista, a volte fingendo il punto di vista degli africani. Consideriamo l’Africa un mondo perduto quando è un continente dove c’è di tutto, anche persone felici, siamo noi che non abbiamo superato il colonialismo anche quando abbiamo un atteggiamento positivo, senza rifiutarlo, lo raccontiamo come lo sprofondo dell’umanità. Questa è una mancanza di cultura. Michele con la sua pulizia va lì e scopre cose, a partire dal fatto che l’Africa non è un posto lento, anzi, è un mondo frenetico, in grande evoluzione e cambiamento, e questa frenesia è interessante. Michele racconta la vita di tutti i giorni da un punto di vista interno, tant’è che quando le persone lo guardano e vedono la videocamera sorridono, lo salutano, perché lo ritengono uno di loro. Per la promozione del film abbiamo fatto un’intervista a Seun Kuti che parla di Michele come fosse suo zio, dopo la morte di suo padre ha passato molto tempo a Roma con lui. Michele ha rotto qualunque barriera e questo atteggiamento l’aveva anche nei confronti del cinema, perché era uno sperimentatore.

Claudio Santamaria, che presta la voce a Michele, è praticamente perfetto.
Claudio aveva lavorato con me in Diaz. Abbiamo costruito un percorso insieme e continueremo a lavorare insieme, lo ritengo uno dei più grandi attori italiani e il suo modo di interpretare il diario di Michele è stato magnifico. Ma anche le musiche di Theo Teardo, il montaggio di Andrea Campaiola, il suono di Marco Saitta, sono tutti elementi che mi hanno aiutato a tenere saldo il mio punto di vista, che è quello di un occidentale che non si deve confondere né con quello di Michele né con quello degli africani che Michele racconta. In questo modo la stoia diventa un gioco di specchi dentro il quale si riflettono certe mie idee sul cinema e quelle che aveva Michele. Ho utilizzato 46 archivi per mettere insieme lo specchio rotto di questa esperienza, non bastavano le immagini che ci ha lasciato Michele, anche se sono molto belle bisognava costruire un viaggio nel tempo che è stato possibile realizzare perché le persone con cui ho lavorato non hanno mai perso l’attenzione nei confronti della narrazione, dando una forma e una struttura all’unione del tutto.

Il regista Daniele Vicari. Foto: Alfredo Falvo

Da poco è uscito il biopic su Bob Marley, che con Fela ha in comune il fatto di essere stato una guida per il popolo giamaicano. La musica è più potente di mille parole.
Sono persone consapevoli delle loro origini. Quando io parlo della necessità di superare il colonialismo, parlo esattamente di questo. Non possiamo vedere gli africani solo come prodotto del disastro del colonialismo, sono anche quello, non c’è dubbio, ma ognuno di loro ha una storia, una lingua, una cultura. Se non impariamo a valutare questi elementi pari a noi, non capiremo mai perché personalità come Fela Kuti o Bob Marley e altri come loro, attraverso non solo la musica ma anche le loro idee politiche, parlano a milioni di persone, perché sono in grado di metterle in contatto con le loro radici e il loro desiderio di essere qualcosa, di vedersi rappresentati e di non essere considerati oggetti. Da questo punto di vista la nostra cinematografia pecca ancora oggi, non siamo in grado di capire quella complessità. È la stessa sensazione che proviamo quando veniamo raccontati come italiani in un film britannico o statunitense, anche di grandi maestri: la nostra realtà viene vista in maniera distorta. Figuriamoci provare a raccontare un mondo antropologicamente “altro”. Michele ha rotto questa barriera entrando in quel mondo perché Fela glielo ha permesso, e non è cosa da molti.