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Quel ‘Familiar Touch’ che celebra la vita

L’opera prima di Sarah Friedland, Leone del futuro a Venezia 81, è la parabola di una donna affetta da demenza. Ma soprattutto un bellissimo film sul tempo e la memoria. Con una straordinaria Kathleen Chalfant

Foto: Fandango

Non dovrebbero essere le registe e i registi a catalogare i propri film, a dire cosa sono, dove metterli, come maneggiarli: ma quando ci riescono è ancora più giusto, più bello. Sarah Friedland ha definito il suo Familiar Touch un “coming of old age”, e non si potrebbe dire meglio di così.

Familiar Touch ha vinto di tutto a Venezia 2024. Il Leone del futuro per l’opera prima, i premi per la regia e la miglior interpretazione femminile (a Kathleen Chalfant: ora ne parliamo) nella sezione Orizzonti. È rimasto nel cassetto per un po’, ora eccolo finalmente in sala (dal 25 settembre con Fandango). È il periodo più affollato, ci sono i film di quest’ultima Venezia, i grandi autori dell’autunno: però cercatelo, ovunque sia.

È un’opera preziosa e un character study come solo il cinema indie americano sa fare. Ma senza i vezzi di certe produzioni ormai omologate su sé stesse, con anzi uno sguardo giovane e aperto su un tema (ora ne parliamo) finora quasi sempre confinato al genere “film dossier” – quella sì una dicitura sbagliata.

Ruth è un’ottantenne che inizia a perdere la memoria. Non sa che vestiti prendere dall’armadio, non riconosce il figlio che la va a trovare a casa, confonde i tempi della vita. Finisce in una RSA (modello, va detto) con attorno gente che le sembra stramba: “Perché hai in testa una molletta per chiudere i pacchetti di patatine?”, chiede a un’ospite più distaccata di lei. Le sembra di vivere in una realtà parallela, invece è la sua realtà nuova.

Friedland fa esattamente questo: ritrarre gli ultimi anni, sconvolti in questo caso dalla demenza, come se non fossero la fine della vita, ma il suo riassunto. Confuso ma anche poetico. Scombinato ma anche libero di riassemblare i pezzi di una vita apparentemente in frantumi. Doloroso e pieno d’ironia. Ruth è sempre lei. È un solo tempo. Una sola donna, anche se è un’altra donna.

Tutti abbiamo avuto una nonna (la regista da lì è partita), una persona vicina, o osservata da lontano, che a un certo punto si è smarginata. Ma Familiar Touch è libero, anch’esso, dal pietismo, e in questo Friedland è aiutata dalla sua esperienza di coreografa, dai primi film che usavano il corpo, la danza, il movimento. Anche Ruth a un certo punto balla, ma più che il ballo in sé è quest’idea di fluidità che ammorbidisce tutto. Un unico tempo, un unico ritmo.

Poi ci sono gli incontri. Ruth incontra un nuovo mondo, Sarah Friedland ha incontrato Kathleen Chalfant. Attrice teatrale (era nel primo cast del rivoluzionario Angels in America), poco cinema (ultimamente con maestracci dell’horror: Ari Aster, M. Night Shyamalan), una presenza silenziosa e debordante. È una signora, è una bambina, è tutto insieme, in ogni momento. Basterebbe la scena della ricetta del boršč. E poi tutte le altre. Se i premi servissero a qualcosa – a segnalare dove si nasconde il vero talento, a farci incontrare i film che ancora siano il racconto della nostra vita – Chalfant dovrebbe vincerli tutti.

Familiar Touch non è un’indagine sulla malattia, ma un film che celebra la vita. Non è una storia di sofferenza, ma di ricerca della felicità. Che sta da tutte le parti, anche dove a volte il cinema ancora ci fa guardare.

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