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‘Extraliscio’, il punk da balera che reinventa un genere

Ovvero: il documentario musicale. Che, nella visione di Elisabetta Sgarbi, diventa il racconto libero della band e della ‘Romagna mia’ fatta di mazurke e anziani che ballano. Nel solco dei viaggi sonori di Wenders

Foto press

Ognuno di noi è tutte le somme che non ha contato: se venissimo sottratti e portati di nuovo nella nudità e nella notte, vedremmo cominciare a Creta, quattromila anni fa, l’amore che è finito ieri in Texas.

Sono parole del romanzo di Thomas Wolfe Angelo, guarda il passato.

Una ragazzina balla il liscio in una balera del ferrarese. È di quelle parti, si diverte. È un flashback da cinema. Poi la ragazza, diventata donna e sottratta a quella provincia e a quell’esercizio, ha fatto cose importanti nello scenario più grande, la grande città, dove non è facile anche se sei un uomo dotato. Elisabetta Sgarbi ha prima pensato, poi sognato, poi si è impegnata, poi ha realizzato qualcosa che appartiene solo a lei. Da quel valzer in balera – o forse era una mazurka – ha operato nella cultura, quella della scrittura, e l’ha estesa a tutte le parentele. Basta la percezione di quello che ha fatto, sta nell’immaginario comune, non servono altre parole.

Conosco la Sgarbi, è il mio editore, e cerco di immaginare la ragione del film Extraliscio. Non è facile entrare nella sua testa, posso pensare a uno stacco da overdose di cultura nobile, chiamiamola così. La signora lavora sulla sua Nave di Teseo, ragiona su gente come Patrick McGrath, Patricia Highsmith, Michel Houellebecq, Francesco Alberoni, Matthew McConaughey, fra i molti altri. Tiene d’occhio i premi Pulitzer che sono una costante della pubblicazioni della Nave. E poi deve gestire la macchina mostruosa che accorpa tutti e tutto, la Milanesiana. E allora cosa c’entrava Extraliscio – Punk da balera? Cose romagnole, memorie di Casadei, il cui nome c’entra sempre, come eredità e ispirazione. Può essere che Sgarbi sentisse la necessità di un’aria dall’ossigeno più rarefatto e leggero. Oppure, dopo tanto tempo, sentisse il richiamo delle provincia, il richiamo della mazurka. Favorito dall’incontro con Mirco Mariani, cantautore, compositore, anima degli Extraliscio. Moreno il Biondo e Mauro Ferrara sono i nomi che faccio, fra gli altri che andrebbero fatti, se ci fosse lo spazio. Il gruppo ha fatto fare al “liscio” due o tre salti di categoria, proiettandosi nel pianeta della musica sincretica e di qualità, dove ci sono tutti i suoni del jazz. Spesso con momenti di virtuosismo. Dire “Romagna” è riduttivo. Alla Sgarbi quei musicisti devono molto, devono un salto, molto lungo, di popolarità.

E qui mi concedo, a mia volta, un richiamo. L’autore è Wim Wenders, il film Lisbon Story. Rüdiger Vogler, l’attore prediletto del regista, si aggira nell’appartamento che lo ospita e sente una musica. Apre una porta e nella stanza ci sono i Madredeus che cantano un fado. La sequenza è un incanto. Ancora Wenders: in Buena Vista Social Club evoca il sortilegio della musica cubana attraverso il suo eroe, Compay Segundo. Il gruppo portoghese e quello cubano hanno lo stesso debito verso Wenders degli Extraliscio verso Sgarbi. E mi concedo un altro richiamo. Trattasi di Fellini, gran narratore di quelle zone. Con quei focus sulle prime turbe di adolescenti, sui riti grotteschi del fascismo, sulla diversa umanità del Grand Hotel e sulle feste paesane, dove però manca il liscio.

Sgarbi ha supplito a quella mancanza. Non è poco. Il film è un movimento che corre veloce. Le regole di linguaggio e drammaturgia di un documentario: tutte disattese. Tutte reinventate, ma sta nella vocazione della Sgarbi. Sono inserti di poetica estetica e di analogie e contrasti. In sintesi fulminea: Ermanno Cavazzoni, il narratore secondo la tradizione classica del “coro”; la bellona di cui tutti sono innamorati, nella sua pole dance; i due anziani, uomini, che si stravolgono nel liscio, in una cantina piena di ferraglia; il poeta che crede di essere Prévert; il pianista che si rifà a Chopin, disturbato da tutti; il paradiso come una strada d’inverno, fra filari spogli, dove passano un pedone, un ciclista e un pianoforte e con gli angeli “che senz’altro amano il liscio”; l’attore fuori di testa che entra ed esce dalla stanza disturbando i musicisti; il canto dei bambini, in ebraico, nel campo di concentramento; l’apparizione di Orietta Berti; le performance di Elio e di Jovanotti; e molto altro. Elisabetta Sgarbi ha firmato una chanson de geste, un poema con metriche disarticolate che creano un precedente in una disciplina, il cinema, dove creare non è facile.

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