Mettiamola così: per il fatto che in concorso ci sia lui, Ari Aster, e non qualche ottuagenario autore al cui glorioso passato genuflettersi con gratitudine, sotto sotto si gode. Già il solo fatto di metterlo in gara implica una scelta di campo ben precisa: significa seguire il flusso di un cambiamento necessario, togliendo un po’ di ragnatele dagli schermi per portare alla ribalta autoriale un under 40 già di culto ma per il mainstream ancora outsider, faccia da impiegato felice che è già venerdì con tanto di occhialini d’ordinanza, nonché reduce, ahinoi, dal flop di Beau ha paura. Uno che ti aspetti li fotta tutti, quei pinguini in smoking, e che porti sulla Croisette un horror catartico: e invece fa di più. Sbarcando a Cannes non con un film dell’orrore: ma “sull’orrore”. Di quello che siamo, di questo millennio guasto e marcio, di un’America malata il cui virus etico che nessuna mascherina può contenere si propaga, con buona pace del distanziamento, ovunque.
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Se vi chiedete che cos’è Eddington, è quella roba lì: tutto quello che vi viene in mente. È fratelli Coen+Tarantino+Lanthimos, frullato con la lucida follia del presente. Il culto delle armi e l’ipocrisia dei movimenti per i diritti civili, il suprematismo bianco e Black Lives Matter, la deriva social e la speculazione edilizia, i santoni web che ciarlano dell’arrivo di un nuovo dio e la Nazione Indiana. Tutto insieme appassionatamente nel tempo in cui sei sempre sotto il tiro dei cecchini o degli smartphone, sempre pronti a testimoniare, rendere virale e infine estorcere e distorcere la realtà.
Se c’era un autore che poteva raccontare l’incubo americano, cogliere il lato grottesco del disastro, la pandemia dell’odio e della disumanità trasformando il cinema di genere in questione politica detonando nella provincia-specchio più provincia (parliamo di nemmeno 2.500 anime…) contraddizioni, veleni e questioni irrisolte che ammorbano il “Grande Paese”, non viene in mente uno più adatto di questo signore qua.
Che ha il sarcasmo e la cattiveria necessari per ambientare (vero coniglio estratto dal cilindro) il suo film zeppo di star (ma di quelle da palati raffinati come Joaquin Phoenix, splendido, Pedro Pascal, Emma Stone, Austin Butler…) nel periodo storico recente più irrazionale: il VentiVenti del Covid. Che non a caso segna anche un ideale spartiacque, un prima e un dopo, tra l’epoca della ragione e quella della follia collettiva, della disinformazione, del non andrà bene un accidenti di niente.
Ne sa qualcosa lo sceriffo di Eddington, New Mexico, asmatico e contrario alle mascherine (Phoenix), che odia ricambiato il sindaco di origine ispanica del paese (Pascal), che pare abbia avuto a che fare in passato con la moglie del primo. Ma mentre anche a Eddington arriva l’onda lunga delle proteste per l’assassinio di George Floyd, il tutore della legge, preso dall’entusiasmo, annuncia su Facebook di volere sfidare l’avversario di sempre per la poltrona di primo cittadino…
Partito come un western moderno, il film di Aster prende poi la strada della black comedy, sterza verso il revenge movie e poi vira decisamente al crime, non senza qualche tocco splatter: c’è molto da divertirsi anche se il piatto è sovraccarico, tipo quei buffet dove non sai più dove mettere la roba. Less is more, recita un vecchio adagio di cui il regista non sembra avere contezza. Ma è un gioco a cui si può stare: almeno prima di finire anche noi, come tutto il resto, nel centro esatto del mirino.