È morto Jean-Louis Trintignant, e un po’ son morto anch’io | Rolling Stone Italia
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È morto Jean-Louis Trintignant, e un po’ son morto anch’io

È stato la ‘forza tranquilla’ della commedia all’italiana, da Risi a Scola. Ma anche il volto di Rohmer, Bertolucci, Truffaut. Un breve ritratto sentimentale

È morto Jean-Louis Trintignant, e un po’ son morto anch’io

Jean-Louis Trintignant

Foto: Bernard Pascucci/INA via Getty Images

Ci sono attori degli altri che diventano anche tuoi. Tuoi in senso sovranista, nazionalista, ma io sovranista e nazionalista non lo sono stato mai: dico “tuoi” perché Trintignant era proprio mio, del mio cinema, di quello che mi piace (piace a molti, per fortuna) nelle facce, nelle storie sullo schermo, e nelle connessioni con i registi che amo, con i mondi, le parole, gli incroci che erano possibili in quel secolo bellissimo che sta morendo tutto, che disgrazia.

Jean-Louis Trintignant è morto a 91 anni, è l’età in cui la morte non è una sorpresa (anche se le bacheche saranno già piene di “Nooooooo”). Era ancora presente nel cinema più o meno recente (gigantesco nel gigantesco Amour di Haneke, tenerissimo nei Migliori anni della nostra vita, secondo sequel sempre di Lelouch del cultissimo Un uomo, una donna e anche suo ultimo film), ma certo quando son così vecchi son dei monumenti, e anche un po’ quei vecchi parenti che non chiami mai perché tanto son lì, che ti dovranno mai dire, che gli dovrai mai dire.

Trintignant era nostro (era mio) per via di Risi, di Scola, di Comencini, e poi Zurlini, Patroni Griffi, era diventato l’italiano che gli italiani non potevano essere, timido quando gli altri erano sempre primedonne, pur nel senso buonissimo del termine, sommesso mentre gli altri erano sempre vocianti: solo uno come lui poteva stare vicino a Gassman in quel film là. Ha portato nella commedia all’italiana – nei sorpassi, tra le donne della domenica, sulle terrazze – la forza tranquilla che all’Italia mancava, e ha fatto suo (nostro) un genere che apparentemente non lo era.

Nel frattempo, contribuiva a codificare la post Nouvelle Vague di Chabrol, di Rohmer (rivedete tutti La mia notte con Maud, adesso, subito), e appunto il mélo di Lelouch, mentre le fughe italiane erano sempre piene di sorprese, ora sontuosamente intellò (Il conformista), ora di puro genere (i titoli con Lenzi, Corbucci).

Ha fatto il primo, bellissimo Amelio (Colpire al cuore) e l’ultimo, bellissimo Truffaut (Finalmente domenica!); il Vadim che ha inventato Brigitte Bardot (Piace a troppi) e il più sottovalutato dei colori di Kieślowski (Film rosso).

È stato antidivo e divissimo, stella sempre schiva e il protagonista indiretto, suo malgrado, del pettegolezzo più nero (la bruttissima fine della figlia Marie). È stato pagliaccio e intellettuale, uomo comune e icona probabilmente a sua insaputa.

Il più bello di tutti, dei miei personali bellissimi, è La terrazza di Scola, che discorsi. «Quando uno come Enrico s’ammala, diventa normale», diceva Gassman del personaggio di Trintignant. E pareva valere pure per Jean-Louis, l’attore e l’uomo. Ma di recente ho visto su Prime Video La matriarca di Pasquale Festa Campanile, una commediola a suo modo deliziosa, tutta optical e pruderie. Perché era appena morta Catherine Spaak, e guardandola però pensavo: fa’ che non muoia troppo presto pure Trintignant, se no muoio un po’ anche io.

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