Diario da Cannes: critici sull’orlo di una crisi di nervi | Rolling Stone Italia
Più dolor che gloria

Diario da Cannes: critici sull’orlo di una crisi di nervi

A Festival appena iniziato, è già difficilissimo vedere i film, a partire dal corto di Almodóvar. Ma questo non è lo sfogo di un “privilegiato” sulla Croisette, solo una constatazione rassegnata sullo stato del cinema e delle cose

Diario da Cannes: critici sull’orlo di una crisi di nervi

Pedro Almodóvar a Cannes 2023

Foto: Guillaume Horcajuelo/Pool/Getty Images

Avviso ai naviganti: andate avanti nella lettura di questo articolo. Perché quello che potrebbe essere apparentemente lo sfogo di un giornalista e critico cinematografico che non riesce a fare il suo privilegiato lavoro che sta svolgendo in uno dei posti più glamour del mondo è in realtà una riflessione sullo stato delle cose a oggi, 19 maggio 2023.

Lo spunto lo offre quanto successo ieri a Cannes, alla proiezione, unica e sola, del cortometraggio di Pedro Almodóvar Strange Way of Life, interpretato dalla coppia d’eccezione formata da Ethan Hawke e Pedro Pascal. Che pare essere magnifico, almeno così mi dicono i fortunati che sono riusciti a vederlo. Non io, dato che alla stessa ora ero impegnato a seguire una gustosa masterclass di Michael Douglas. Ecco, è opportuno partire da qui: due eventi di tale portata alla stessa ora dello stesso giorno. Ci sarà certamente una ragione dettata dalle disponibilità dei vari talent, ma è difficile non dire “bravó” ai responsabili della programmazione di quello che si autocelebra come il più importante evento cinematografico del mondo.

Ma torniamo a Pedro. Per farla breve – e soprattutto non annoiarvi con questioni che di fatto coinvolgono un infinitesimale numero di persone sulla Terra mentre tutt’attorno accadono cose ben più drammatiche – da questa unica proiezione sono rimaste fuori decine e decine di persone (c’è chi dice anche duecento; otto per il Tg1) regolarmente munite di biglietto, sorpassate da chi era invece in fila nella speranza di un posto libero all’ultimo momento. Come sia potuta accadere questa cosa non è dato saperlo, nel senso che non lo sa nessuno, dato che anche chi dovrebbe fornire una risposta, ovvero la “macchina del Festival”, ha preferito calare un velo d’omertà sull’accaduto.

Per spiegare bene la cosa bisogna partire dall’inizio. Dal post Covid i grandi festival di cinema internazionali hanno pensato fosse necessario trovare un modo per evitare gli assembramenti, ovvero le file per entrare alle proiezioni. A lanciare l’idea fu Venezia nel 2020, ancora in piena pandemia: prenotazione elettronica del biglietto con scelta del posto in sala con un sistema prioritario in base all’importanza dell’accredito. Sistema che all’inizio di ogni festival funziona malissimo, quindi bestemmie in aramaico, ma dopo qualche tribolazione tutto va per il verso giusto e a Venezia non si vede più una fila degna di questo nome.

Cannes non può essere da meno. Il problema è che il rapporto qualitativo del servizio è lo stesso che c’è tra prenotare un volo in business su British Airways (Venezia) e una tariffa base su Ryanair (Cannes): sveglia alle 6:45 per prenotare biglietti che permettono di fare un’ora di fila senza la sicurezza di entrare in sala. E i forzati del cinema con gli occhi ancor velati dalle briciole dei sogni, come avrebbe cantato Guccini, quando iniziano a scorrere la lista dei film da prenotare sanno già che l’unico vantaggio sarà essersi svegliati presto, perché di fronte al sistema di prenotazione di Cannes non ci sono né leoni né gazzelle: qualcun altro sarà comunque più veloce nel rovinarti la giornata.

Morale della favola: dopo due giorni, il festival più importante del mondo assomiglia a una Festa dell’Unità in quel di Cecina quando, dopo avere pagato il panino con la salsiccia, arrivi al banco con il tuo tagliandino quadrato celeste numerato e scopri che se l’è preso quello prima di te. Ma in quel caso un’altra salsiccia te la danno e si scusano pure. Qui no. E il meglio deve ancora arrivare, con Indiana Jones e soprattutto Killers of the Flower Moon, forse uno dei film più attesi degli ultimi vent’anni. Si prevedono scene da guerriglia urbana, con critici specializzati sull’opera di Nando Cicero che danno fuoco al negativo originale delle Regole del gioco mentre quotidianisti da tutto il mondo sculacciano le maschere del Palais des Festivals con copie arrotolate dei loro giornali.

Arriviamo alla riflessione di cui parlavamo all’inizio. La condizione in cui versa il Festival di Cannes, quest’anno ma anche già da molti precedenti, è emblematica di una società contemporanea che fa dell’autocelebrazione il metro di ogni giudizio. Quello sulla Croisette è un enorme baraccone che guarda alla forma e non alla sostanza, l’unica cosa che importa è chi salirà su quel tappeto rosso. Le recensioni dei film? Contano solo quelle positive, quelle negative sono degli haters, dei fake, degli incompetenti. Quello che una volta era uno degli eventi artistici e culturali fondamentali del calendario mondiale è ormai ridotto a un enorme set per Instagram e TikTok. Chi vuole partecipare deve accettare supinamente le regole, dettate dal direttore in bicicletta Thierry Frémaux, sempre più bravo a piegare la realtà secondo il suo punto di vista come neanche il miglior Steve Jobs era capace di fare.

A farne le spese alla fine è, in fondo, solo uno sparuto manipolo di giornalisti sognatori convinti ancora che l’arte possa cambiare il mondo più di un reel o di una story. Il giorno del giudizio è arrivato. Pentitevi, o voi che ancora venerate Ozu, Welles e Buñuel.