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Del perché oggi non si fa più critica (o si fa solo per finta)

Ai film, ma anche in generale. Morto Goffredo Fofi (sigh), è ancora più evidente la mancanza di senso di una delle attività più praticate del ’900. Resteranno davvero solo vecchi boomer su Facebook e reel di instagrammer vanitosi?

Foto: Warner Bros.

A cosa serve la critica cinematografica oggi? La morte di Goffredo Fofi ci serve la risposta meglio di Sinner: a niente. Forse così è troppo facile, forse sono troppo duro, forse è il caldo: ma voi rispondereste diversamente? Con Fofi, fin da ragazzino, non ero d’accordo quasi mai, ma quello per me era il bello. Quella era la critica. Pure criticare la critica. Oggi, che cosa è cambiato? A cosa serve la critica cinematografica, come domandavo all’inizio?

Ci pensavo appunto nel giorno della morte di Fofi, con i social pieni dei soliti selfie, dei soliti “gli intellettuali così non li fanno più”, delle solite lodi post-mortem a gente che in vita era dai più dimenticata, o data (s)comodamente per scontata. Lodi che arrivavano, in molti casi, da persone che la lezione di Fofi forse l’avevano pure imparata, forse pure di persona personalmente, ma che non l’avevano mai attuata: bisticciare non si fa più, nel mondo in cui tutti dobbiamo essere amici di Instagram – o in cui si finisce screenshottati, e inoltrati di chat in chat, in tempo zero.

Ci pensavo quel giorno e, due o tre giorni dopo, m’è venuto in soccorso un articolo di Variety il cui titolo riportava, più o meno, ciò che vedevo accadere da una settimana sui social (il boomerissimo Facebook soprattutto). Il titolo del pezzo diceva (parafraso): Come Superman ha generato una guerra di recensioni: quando è giusto dire che un film troppo divertente non è divertente per niente? Il giornalista, fan dei cinecomic (pure i più scarsi), aveva scritto un’ottima recensione al film di James Gunn, e si domandava come fosse possibile questa faida critica di fronte a un film che, innanzitutto, voleva essere un blockbuster estivo divertente, un po’ nostalgico, fiducioso nel rilancio di un genere che si credeva morto – e che voleva pure fare molti soldi e farli fare al suo Studio: non sono così naïf.

Pure da noi, nei giorni successivi all’uscita di Superman, i critici (o quel che ne resta) si erano animati moltissimo davanti a questo nuovo film dell’uomo col mantello, che a me aveva pure tutto sommato divertito, ma non è che sono uscito dalla sala pensando che avrei dovuto schierarmi: è un uomo col mantello, suvvia, va bene per passarci un pomeriggio d’estate. E invece era tutto un “tu non capisci niente”, “no, sei tu che non hai capito tutto il finissimo lavoro filologico che c’è dietro”, “ridatece pure i peggio Marvel”, “Gene Hackman nell’originale era un cane” (ho letto pure questo, ebbene sì). È sempre stato così, ma oggi quel che si vede accadere, in casi come questo, chiama un’altra domanda.

Che è: per chi è fatto oggi, prima ancora che il cinema, il dibattito (o quel che ne resta)? Chi si sente chiamato e legittimato a schierarsi, e per chi? Per chi si scrivono gli articoli (pochissimi) e i post (tantissimi: pure i critici, in mancanza di giornali, scrivono ormai solo lunghi papelli sulle loro bacheche)? Per gli amichetti di Facebook (che ti daranno comunque ragione, oppure diranno che sbagli ma con una faccina che ride alla fine: non sia mai che poi mi blocchi!)? Per il benedetto posizionamento? Il pubblico là fuori (o quel che ne resta) cosa legge, se lo legge?

Fofi sembra davvero un dinosauro di Jurassic Park, il relitto di un secolo che non è sopravvissuto a sé stesso. Se qualcuno gli avesse detto (probabilmente lui lo sapeva) che i giornalisti e i critici avrebbero postato qualsiasi gadget di qualsiasi casa di distribuzione o piattaforma, li avrebbe insultati. Se qualcuno gli avesse detto che oggi il giornalismo di cinema (o quel che ne resta) passa dai reel in cui è sempre il giornalista il protagonista, quello che deve farsi dire dal regista/attore di turno quanto è divertente, intelligente, ficcante, ma che bellissima domanda mi hai fatto, ma che belle scarpe che hai; ecco, forse avrebbe dato fuoco a tutti i Quaderni piacentini. Un Fahrenheit 451 non per totalitarismo, ma per totalità di stupidi.

Mi viene in mente un delizioso personaggio del nuovo Superman: la pupa di Lex Luthor, bionda e oca (guardandola, ero sconvolto dal fatto che oggi si possa di nuovo fare), che, mentre un bestione distrugge Metropolis e l’uomo col mantello prova a sconfiggerlo, si piazza davanti al finestrone del grattacielo con vista combattimento e si scatta selfie. Forse il cinema (o quel che ne resta) oggi è così: un posto bellissimo, a cui siamo tanto affezionati, in cui torniamo sempre, fatto a pezzi da tutti i bestioni di passaggio. E noi lì che facciamo finta di niente, che pensiamo solo a posizionarci dalla parte giusta – che cambia ogni due-tre giorni.

M’è venuto prima in soccorso quell’articolo di Variety, mentre cercavo di mettere ordine alle mie idee disordinate (che restano tali), e subito dopo altre due visioni. La prima: il personaggio di Andrew Scott nella nuova serie Netflix di Lena Dunham. (Serie per la quale si sta parimenti sollevando un dibattito – o quel che ne resta – sulle bacheche, le stories, i saldi di fine anno della critica che ci tocca in sorte; io dico solo che, piaccia o no Dunham, pure in quest’ultimo lavoro si riconosce un’autrice, e in tempi di prodotti algoritmici è una cosa che mi dà tanto sollievo.)

In Too Much, Scott è Jim Wenlich Rice (nome bellissimo), un regista vanesio che ha appena girato un film premiatissimo sui drammi delle sex worker (Anora, ci senti?) e che viene ingaggiato per dirigere uno spot di Natale per la casa di produzione in cui la lavora la protagonista, Jessica (Megan Stalter). Durante i sopralluoghi in un paesello della campagna inglese, porta al pub Jessica (Megan Stalter), ma passa la serata a litigare con chi, su Letterboxd, attacca il suo film. Dice Jim a Jessica: “I critici da divano sono la morte del cinema”. E non credo il riferimento sia, in questo caso, alla fantomatica “esperienza della sala”. Il sottotesto è: se tutti spolliciamo sui profili altrui, videorecensiamo qualsiasi cosa, facciamo valere il verbo dei nostri quattro titoli preferiti sul social del momento, chi ha davvero ragione? Più sinteticamente: se oggi siamo tutti critici, chi lo è davvero?

Tutti critici che però, come dicevo, non vogliono criticare, e soprattutto criticarsi. Il secondo assist me l’ha dato il trailer di After the Hunt, il nuovo film di Luca Guadagnino che uscirà a ottobre. Dice Andrew Garfield, giovane professore universitario, a Ayo Edebiri, la più promettente delle studentesse, all’inizio del trailer: “La vostra generazione ha paura di dire la cosa sbagliata. Da quando offendere qualcuno è diventato il massimo peccato capitale?”. Dice Edebiri a Julia Roberts, docente senior travolta da quello che presto diventa uno scandalo MeToo, alla fine del trailer: “Non mi sento più a mio agio a parlare qui con te”. E Roberts risponde: “Non tutto ha lo scopo di metterti a tuo agio”.

O forse, oggi, sì – perciò non vedo l’ora di vedere questo film. Per questo non si fa più critica, o si fa solo per finta. Forse resterà giusto qualche boomer (usato anagraficamente pure in modo impreciso) ad animare stanchi dibattiti su Facebook: i giornali non pagano/esistono più, ma mica si può rinunciare a quel brivido ogni giovedì, quando escono i film che solo quei tre amichetti ormai vedono. O forse resterà qualche millennial col telefono in mano a fare i reel mentre tutto crolla, l’importante è che non crolli lui. Resteremo noi a criticare senza criticarci, e soprattutto senza nessun Fofi che ci dica che, come sempre, stiamo sbagliando tutto.

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