Dal libro al film: schermo schermo dei miei Nobel – Parte I | Rolling Stone Italia
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Dal libro al film: schermo schermo dei miei Nobel – Parte I

Dopo l’excursus sullo Strega, quello sul fratello maggiore svedese e i suoi tanti autori premiati e poi finiti al cinema. In particolare su Ernest Hemingway, che, se veniva ‘tradito’ dai registi, prendeva il fucile…

Dal libro al film: schermo schermo dei miei Nobel – Parte I

Ingrid Bergman e Gary Cooper in ‘Per chi suona la campana’ di Sam Wood (1943), tratto dal romanzo di Ernest Hemingway

Foto: Paramount/Getty Images

Dopo l’attenzione ai romanzi vincitori dello Strega che sono diventati film (il nostro excursus in due parti qui e qui), può essere opportuno e curioso estendere la ricerca al premio dei premi, il Nobel della letteratura. Nel film Intrigo a Stoccolma, il presidente del Comitato del premio ha radunato la stampa di tutto il mondo. «Una volta ancora», dice, «l’Accademia delle scienze svedesi ha votato, l’Istituto Carolina ha votato, l’Accademia delle lettere svedesi ha votato. Una volta ancora l’uomo conferisce l’immortalità ai suoi simili». Estrae una busta da una cartella: «Ecco i nomi dei vincitori dei premi Nobel». Il presidente ha certo usato termini un po’ enfatici, ma non c’è dubbio che quei nomi
entrino nell’antologia più preziosa e nella categoria più alta della letteratura.

Film derivati dagli scrittori vincitori nei decenni: ce ne sono molti naturalmente, e spesso, non sempre, di qualità. Il nodo può essere il solito, storico, del rapporto, non sempre semplice e felice, fra libro e film. Nella selezione dovrò fare delle scelte, con relative omissioni… dolorose.

Parto da un nome esemplare in questo senso, Eugene O’Neill (Nobel 1936), forse il più grande commediografo americano. Il cinema si è appropriato di suoi testi come Il lungo viaggio verso la notte del 1962 diretto da Sidney Lumet, con Katharine Hepburn, che ebbe una nomination all’Oscar, e Ralph Richardson. Trattasi di opera elegante e colta. Ma il cinema non la inserisce nei suoi classici. Il lutto si addice ad Elettra, forse il titolo che più identifica O’Neill, risulta accademico e quasi noioso.

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I romanzi di Ernest Hemingway sono perfetti per il cinema e il cinema ne ha approfittato, a volte intervenendo sulla trama, inventandosi degli happy end e stravolgendo l’equilibrio drammaturgico. Nel 1954, quando lo scrittore vinse il Nobel, il Comitato di Stoccolma, per la prima e unica volta nella sua storia, nella motivazione citò un’opera precisa: «Per la sua maestria nell’arte narrativa, recentemente dimostrata con Il vecchio e il mare, e per l’influenza che ha esercitato sullo stile contemporaneo».

John Sturges firmò il film nel 1958, con Spencer Tracy nella parte del vecchio pescatore Santiago, il protagonista. Il regista, rispettoso del testo, inserì lunghi momenti di voce fuori campo, letti, nell’edizione italiana, da Gino Cervi. Un altro romanzo di Hemingway, Avere e non avere, ebbe tre versioni; una è un classico del cinema, Acque del sud, pure con l’anomalia del lieto fine. Però i nomi in gioco erano nobili: il regista Howard Hawks e lo sceneggiatore William Faulkner nientemeno, altro premio Nobel (1949) al quale non sembrò vero di poter fare un dispetto al suo antagonista Hemingway.

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I quarantanove racconti, scritti negli anni Trenta, è una raccolta alla quale il cinema ha prestato attenzione. Sono tre i film. Il primo, La breve vita felice di Francis Maconber, divenne film nel 1947 col titolo Passione selvaggia, con Gregory Peck. Il film, sorprendentemente, non si fa tentare dal lieto fine. Le nevi del Kilimangiaro, film nel 1952, fece molto arrabbiare Hemingway. La produzione aveva scelto l’happy end a fronte di un finale opposto: invece di morire di infezione, Gregory Peck si alza dal letto e se ne va, felice, mano nella mano con Susan Hayward. Il terzo film è I gangsters, con Burt Lancaster e Ava Gardner: storia rispettata.

Anche Per chi suona la campana non viene tradito. Il film finisce con Robert Jordan-Gary Cooper che, ferito, si immola ritardando i franchisti sul ponte, dando la possibilità ai repubblicani di mettersi in salvo. La produzione aveva pensato a un lieto fine, con l’eroe Cooper che sopravvive e si abbraccia con l’amata Maria (Ingrid Bergman). Hemingway non la prese bene. Minacciò, se avessero cambiato il finale, di andare alla Paramount con un fucile. I produttori sapevano che Ernest, i fucili, li usava.

Fine della prima parte

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