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Dal libro al film: in viaggio con Jack Kerouac

Solo Walter Salles, il regista dei ‘Diari della motocicletta’, ha provato a tornare ‘sulla strada’ adattando il capolavoro dello scrittore simbolo della Beat Generation. Ma le immagini della carta non possono essere eguagliate nemmeno dal cinema

Foto: American Zoetrope/MK2

Marzo 1922: nasceva Jack Kerouac, visionario, inventore, rivoluzionario. Come raramente accade, nasce un autore che crea un codice al quale poi occorrerà rifarsi. Siamo nel 1957 quando Kerouac pubblica On the Road, un titolo fondamentale della letteratura del Novecento. Nel 2012 Walter Salles ne ha tratto un film. Dico subito che è molto lontano dalla qualità del libro. E aggiungo che non può essere altrimenti. Pochi anni prima un altro americano aveva creato un precedente “legislatore”, imprescindibile: Jerome David Salinger col suo Giovane Holden, del 1951. Sempre di ribellione giovanile trattasi.

Mentre Holden Caulfield, il 17enne di Salinger, era un carattere generale di adolescente che non sopporta i modelli dell’autorità (genitori, insegnanti), la ribellione di quella che venne chiamata la Beat Generation può riguardare una fascia particolare, un segmento, una certa casta. Riguarda i giovani con l’attitudine dell’estrema ricerca personale, magari antropologica, ma dolorosa e possibile solo se sei un prescelto, se quell’attitudine ti appartiene davvero. Non era questione di genitori o di padroni, era una vicenda di “se stessi”, con un progetto profondo e finale, radicale come una missione, con la marijuana invece della fede. Il resto era girare il mondo, confrontarsi coi propri (pochi) simili, rifiutare non solo il sogno americano della realizzazione – coi dollari – ma procurarsi quel poco che serviva caricando sacchi, pulendo cessi o servendo a un bar. Per poi partire per un altro viaggio e un altro incontro. Viaggiando su un furgone guardando le stelle con l’opportuno additivo visionario.

Un’istantanea generale può essere: una stanza scrostata, un portacenere tracimante di cicche, un lavandino sporco, una ragazza o un ragazzo a letto, nudi, che si intravedono da una porta socchiusa, un libro vicino a un accendino e a una lattina di birra a firma Proust, o Wolfe, o Burroughs, una macchina da scrivere là in un angolo. Quelli non volevano cambiare il mondo, anzi, volevano che restasse com’è, come specchio a contrasto delle loro diversità. Poi vennero, alla fine del decennio successivo, altri giovani, dalle ottime intenzioni iniziali, portatori di una ribellione collettiva. Gruppi diversi, ma non così diversi. E le generazioni che seguirono, tutte finché rimasero giovani, qualcosa raccolsero, degli uni e degli altri.

Sal Paradise, il protagonista di Sulla strada, newyorkese che vuole fare lo scrittore, incontra Dean Moriarty, ragazzo dell’Ovest. Dean gira l’America lasciandosi accadere tutto: ha grande fascino, sugli uomini e sulle donne. Ne sposa una poi un’altra, poi ha un figlio, tutto al momento, tutto provvisorio, e non ha un dollaro, e tutto va bene per procurarseli, tutti i lavori, anche prostituirsi con un vecchio gay. Tutto. E niente è nella dimensione normale della vita americana. C’è il viaggio, solo il viaggio. Agli occhi di Sal, Dean è un eroe, ma Sal mantiene una franchigia, sa che qualcosa di sé e della nazione può essere salvato. E poi Sal, che è semplicemente Kerouac, possiede qualcosa di diverso, in più, importante: il talento. E quella sua capacità di scrivere come se suonasse uno strumento cercando le parole, e trovandole come lo strumento trova le note nel jazz. Improvvisazione, scatto, moto febbrile, e tutto di getto. Sal raggiunge Dean a Denver, e i due iniziano il loro road trip, San Francisco, Los Angeles, il Texas, infine il Messico. Dove Sal sta male, molto, ma viene lo stesso abbandonato dall’amico, che non resiste al proprio impietoso destino giornaliero.

Alla fine Sal, a New York, parzialmente reintegrato, dopo tanto tempo si vede davanti l’amico, stremato e malato. Lo abbraccia, ma se ne va, lo lascia lì dov’è. Lo lascia col cuore morto. E quando Sal/Jack racconta l’epilogo citando le parole scritte dell’ultimo paragrafo del romanzo, ecco che riappare, impietosa, la prevalenza della parola, se è grande, rispetto al fotogramma. Non c’è regista che sappia sostenere quella qualità, quel sortilegio, quella musica, quella poetica. Un film non può che essere ad handicap rispetto al libro. E l’handicap non viene recuperato, non può accadere per la diversità delle discipline. Dunque non domandare mai se è meglio il film o il libro. Non esistono libri tratti da film, solo film tratti da libri: una ragione ci sarà. On the Road è lo strumento esemplare a spiegarla.

Ecco il paragrafo dell’epilogo: «E così in America, quando il sole tramonta e me ne sto seduto sul vecchio molo diroccato del fiume a guardare i lunghi cieli sopra il New Jersey e sento tutta quella terra nuda che si srotola in un’unica incredibile enorme massa fino alla costa occidentale, e a tutta quella strada che corre e a tutta quelle gente che sogna nella sua immensità, e so che a quell’ora nello Iowa i bambini stanno piangendo nella terra in cui si lasciano piangere i bambini, e che stanotte spunteranno le stelle, e non sapete che Dio è Winnie Pooh, e che la stella della sera sta tramontando e spargendo le sue fioche scintille sulla prateria proprio prima dell’arrivo della notte fonda che benedice la terra, oscura tutti i fiumi, avvolge le vette e abbraccia le ultime spiagge, e che nessuno, nessuno sa cosa toccherà a nessun altro se non il desolato stillicidio della vecchiaia che avanza, allora penso a Dean Moriarty, penso persino al vecchio Dean Moriarty padre che non abbiamo mai trovato, penso a Dean Moriarty…”. Ecco qui. E non c’è pellicola, e non c’è cineasta, che possa star dietro a queste parole grandi.

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