Quando è arrivata la notizia della morte di Robert Redford stavo per entrare all’anteprima di Una battaglia dopo l’altra, il nuovo film di Paul Thomas Anderson starring Leonardo DiCaprio. Appena uscita, la prima cosa che mi appare scrollando Instagram è un post di DiCaprio che ricorda Redford. E sulla bacheca di DiCaprio ci sono soltanto due tipi di post: sui suoi film e sul suo impegno ambientalista. In quella foto e in quelle righe c’è una legacy (e non solo di Gatsby in Gatsby): il divo contemporaneo engagé che rende omaggio all’uomo che ha trasformato il divismo in una forma di impegno civile. «La forza dell’arte è che non solo resiste al cambiamento, ma può anche guidarlo», Redford dixit, ritirando l’Oscar alla carriera nel 2002.
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Robert Redford, infatti, non è stato soltanto una star del cinema americano: è stato un’idea di cinema americano, che per decenni ha provato a essere insieme popolare e adulto, glamour e impegnato, capace di vendere biglietti e al tempo stesso di dire qualcosa di rilevante sul suo Paese. Redford sapeva che il cinema, se vuole, può ancora essere un’arma di seduzione di massa. E quella fascinazione passa per immagini che restano scolpite: istantanee – e ognuno ha le sue – che hanno costruito un’icona (pardon, ma tant’è) fotogramma dopo fotogramma.
Redford al fianco di Paul Newman, gli occhiali da sole in pieno West (un anacronismo diventato culto). Sono circondati, senza via d’uscita, Sundance non si vuole buttare dal dirupo e alla fine ammette: «Non so nuotare!». Butch scoppia a ridere, poi si lanciano insieme dentro a un fiume impetuoso. È la perfetta miscela di azione, ironia e disperazione che ha reso immortale la coppia: due banditi senza futuro che scelgono comunque di riderci su. Newman era già leggenda, Redford lo diventa in quell’istante. Non più “the new guy”, ma the Sundance Kid. Un soprannome che diventerà festival, istituzione, mito cinefilo. Redford è il cowboy biondo, malinconico e übercool, l’eroe americano che non si prende mai troppo sul serio. Clic.
Di nuovo: Redford e Newman insieme per la resa dei conti contro Doyle Lonnegan (Robert Shaw); c’entrano ancora i cavalli, qui però ci scommettono sopra. Nella Stangata, dopo la sparatoria a salve rigorosamente in smoking, Henry Gondorff (Newman) si rivolge a Johnny Hooker (Redford): «Be’, ragazzo, ce l’hai fatta». Mentre si asciuga il sangue finto, Johnny sorride: «Hai ragione, Henry, non è abbastanza. Ma ci va molto vicino». È il brivido del truffatore che ha appena sfiorato l’impresa, l’attimo in cui sai che il golpe è quasi riuscito, il successo praticamente completo – eppure qualcosa lo rende purissimo: il dialogo mai retorico, il senso del rischio che resta anche nella vittoria. Redford smette di essere solo “il giovane complice” e diventa il protagonista del suo stesso bluff, capace di trasformare una truffa in arte e un colpo in spettacolo, è l’attore che fa il botto al box office e al tempo stesso si guadagna una nomination all’Oscar, l’interprete con un timing micidiale e una leggerezza che oggi pare impossibile. Clic.
«La vita è troppo seria per essere presa seriamente», dice infatti il suo Hubbell alla Katie di Barbra (basta il nome), nel tentativo di incrinare la sua sicurezza. «Sei proprio tanto certa delle cose di cui sei certa?». È la supercazzola charmant con cui il suo WASP smonta noncurante l’ardore granitico della pasionaria di lei. Come eravamo: Redford e Streisand, il golden boy e l’outsider con la voce e il carisma che riempiono tutto. Lui non alza mai la voce, non fa gesti eclatanti: l’allure sta in quella sorta di apparente freddezza, in quel non detto che vale più di qualsiasi dichiarazione. La loro love story sullo schermo è destinata a fallire, eppure resta una delle più struggenti della storia del cinema. È la prova che la narrazione di un divo si costruisce anche nello spazio lasciato agli altri. Come eravamo è il Redford romantico, ma mai stucchevole: l’amore impossibile che ci ha insegnato che a volte basta un sorriso negli occhi per ricordare una vita intera. Clic.
E subito dopo, un’altra istantanea, un altro clic su sfondo del ticchettio di macchine da scrivere. In Tutti gli uomini del Presidente, la star lascia spazio al cittadino. «Io non ho mai chiesto niente sul Watergate. Ho semplicemente chiesto quali fossero i compiti di Hunt (che progettò il furto con scasso e altre operazioni clandestine per conto dell’amministrazione Nixon, nda) alla Casa Bianca. E loro si sono affrettati a dire che era innocente, quando nessuno aveva domandato se fosse colpevole», afferma Bob Woodward. È la quintessenza del giornalismo d’inchiesta: non servono rivelazioni clamorose, basta saper ascoltare le incrinature del potere. Redford, in camicia e cravatta qua e là un po’ allentata, restituisce la calma ostinata del cronista che capisce che lo scandalo non è nelle ammissioni, ma nelle difese anticipate. È il cinema politico degli anni ’70, quello che ancora credeva che la verità potesse cambiare il mondo. Redford non solo recita, ma produce; sì, ha deciso di sporcarsi le mani. Clic.
Poi, a distanza di una ventina d’anni, un ultimo lampo (e niente film-shaming, che come dicevamo ognuno ha le sue di istantanee, pure inconsce). «Lei aiuta le persone che hanno problemi con i cavalli», sentenzia Annie MacLean, la giornalista interpretata da Kristin Scott Thomas, cercando di sminuire il lavoro di Tom Booker/Redford. E lui, con uno sguardo che basta da solo a riempire lo schermo, precisa: «Io aiuto i cavalli che hanno problemi con le persone». È un ribaltamento semplice, ma che ne racconta l’essenza: l’empatia, il rispetto per la natura, la sua idea di arte come spazio di riconciliazione. Una battuta che pare quasi un testamento poetico, perché in quel rovesciamento c’è la chiave del Redford regista e interprete: è un cinema che non parla di potere sull’altro, ma di relazione con l’altro. Per molti L’uomo che sussurrava ai cavalli è drama sentimentale da divano, ma a ben pensare è un’estensione della sensibilità di Redford: l’amore per i paesaggi americani, il rispetto per gli animali, l’idea di una storia intima, fatta di respiri, pause e silenzi, in contrasto con la spettacolarità del mainstream anni ’90. Una dichiarazione d’intenti sul tipo di cinema che Redford voleva fare. E sostenere.
Cinque istantanee, certo, ma – sotto – l’album di una vita davanti e dietro la macchina da presa: c’è il Redford che improvvisa una danza con Jane Fonda sopra i tetti di New York e il trapper selvatico di Corvo rosso non avrai il mio scalpo! C’è il Gatsby vestito di bianco, fragile e inafferrabile, e l’impiegato della CIA braccato dal suo stesso governo. C’è l’avventuriero romantico al fianco di Meryl Streep e l’uomo che mette in vendita se stesso e il proprio desiderio. C’è il regista che sorprende Hollywood con Gente comune, portandosi a casa l’Oscar, e uno dei cattivi più importanti del Marvel Cinematic Universe (nonostante una manciata di pose). E soprattutto, sempre, c’è il Redford che ha usato la sua fama per costruire prima un’organizzazione no-profit, poi un festival e un modo di guardare all’arte: il Sundance, rifugio per i registi fuori dal sistema, luogo dove l’indie può respirare e crescere. Non solo un attore, non solo un regista: un’idea di cinema.
E quell’idea di attore-intellettuale, di divo che non si vergognava e al tempo stesso non si accontentava di esserlo, la ritroviamo in quei fotogrammi: a cavallo accanto a Newman, a truccare il gioco, a sorridere alla Streisand, a scrivere note per smascherare Nixon, a tranquillizzare un cavallo ferito. «Non prendiamoci in giro, Bob. Per il resto, per noi non sarà mai più uguale» (semicit.)







