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Cannes 2021 riparte, ma un po’ si accontenta

Il Festival ha fatto quello che poteva, guardando però forse più indietro che avanti, orfano del film che cambia tutto (vedi 'Parasite'). Menzione speciale invece per i giovani autori del cinema italiano

Foto: Lucky Red


È come col terremoto: dopo che è finito tiri un sospiro di sollievo. Ma è solo una tranquillità fasulla: sai benissimo che la terra può tremare ancora. Eppure speri sia finita lì e fai finta di niente. Ecco il cinema sta facendo quello: fa finta di niente. Chiede al vicino dove eravamo rimasti e ricomincia esattamente da dove si era interrotto: così. Non che ci dovesse essere per forza la pandemia sugli schermi nuovamente accesi di Cannes (un solo film in concorso la evoca, Les intranquilles di Joachim Lafosse), ma che si sentisse, quello sì. E invece il grande racconto del presente è stato chiuso tra due parentesi spesse, quasi a giustificare, nonostante mascherine e tamponi, che tutto poteva essere come prima. Solo che noi non volevamo che fosse come prima: noi volevamo fosse meglio. Ci aspettavamo i fuochi d’artificio, un capolavoro al giorno, la rivoluzione: con la pretesa di essere ripagati da un anno (e più) orribile.

E invece il Festival, ovviamente, ha fatto quello che poteva, girandosi più indietro – se la presunta originalità del film choc Titane di Julia Ducournau deve molto alle ossessioni di Cronenberg, Farhadi recupera addirittura De Sica e Ladri di biciclette – che non guardando avanti, aggrappandosi un po’ al “cinema di papà”, non trovando realmente linguaggi innovativi o di rottura. Accontentandosi di ripartire. Che non è poco, intendiamoci: perché se un merito Cannes lo ha è quello di avere rimesso il cinema al centro dell’inquadratura (se non del mondo), di averlo costretto a ritornare in scena dal fuori campo in cui il lockdown lo aveva confinato. Facendoci rivivere l’emozione di una sala strapiena, dove ad assembrarsi sono state soprattutto le emozioni.

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Nonostante due anni di tempo per prepararla, la line up del concorso, dove hanno pesato più i nomi che i film (non comprensibile l’esclusione del bellissimo Evolution di Kornél Mundruczó, ma anche di A Chiara del nostro Jonas Carpignano – che ha vinto l’Europa Cinemas Cannes Label per il miglior film europeo alla Quinzaine des Réalisateurs – e pure di Ouistreham di Emmanuel Carrère) non ha però riservato veri colpi di fulmine: alcuni buoni (anche molto buoni) film, altri dimenticabili. O erano le nostre aspettative a essere troppo alte? Può darsi, ma la sensazione che sia mancato il film che cambia tutto (vedi il fenomeno Parasite) è tangibile. E allora, se dobbiamo fare un nome e uno solo, facciamo quello di Ryūsuke Hamaguchi: il suo Drive my car da Murakami, quella Saab rossa, un prologo che dura 45 minuti, il sottotesto colto e teatrale, una ragazzina senza patente che veniva picchiata dalla madre se alla guida prendeva una buca, sono tutte cose che hanno fatto facilmente breccia nel nostro cuore. Là dove al contrario i maestri sono apparsi appannati o un po’ stanchi (Weerasethakul, Dumont, Verhoeven, nonostante la spinta iconoclasta, e in parte Moretti) o non sempre all’altezza di più brillanti (Ozon, Audiard, Anderson comunque tra i promossi) prove precedenti.

È un Festival che ha parlato soprattutto la lingua delle donne – grandi protagoniste di quasi tutti i film del concorso –, ha difeso la diversity (superando, e di molto, le liti sul DDL Zan) e i diritti individuali (fosse anche quello di morire, come in Tout s’est bien passé), ha fatto sentire la voce di chi vuole (dall’africano Lingui alle rapper col velo e non di Haut ed fort) cambiare le cose. Perseguendo spesso e volentieri l’incontro, anche quando inatteso: la strana coppia in viaggio del finlandese Compartment n°6, uno dei migliori film di questa edizione, la borghese abbandonata dalla compagna e il gilet giallo nell’ospedale de La fracture, il regista e la sua autista in Drive my car, il pornodivo in disgrazia e la sexy camerierina dell’indie Red rocket (divertimento white trash assicurato), il ragazzo disturbato e l’ex attrice di Nitram. Un cinema binario, dualistico, quello uscito dalla Croisette: padri e figli, mariti e mogli, coppie, amanti. Come se “uno” non fosse nemmeno un soggetto e “due” fosse già cinema. Film spesso in viaggio, poco stanziali, precari. E poi cose belle: i virtuosismi di Ahed’s knee, l’incertezza sentimentale ed esistenziale di Julie, il piano sequenza che apre Evolution, i quadri vivant di The French Dispatch, il bambino balbuziente di A hero, il massaggio cardiaco a ritmo di mancarena di Titane, il sesso in bianco e nero de Les Olympiades, il pittore bipolare de Les intranquilles, la scena della festa di A Chiara.

Un fotogramma di ‘A Chiara’ di Jonas Carpignano


Sprazzi, ricordi, di un Festival che ci ha consegnato un’idea più precisa di chi siamo. Mai come questa volta il cinema italiano – tra una standing ovation a un commovente ma non autoassolutorio Bellocchio e il senso di Moretti per la famiglia – ha cercato coi suoi giovani strade nuove, allontanandosi da una logica romacentrica per andarsi a prendere rischi anche al di là del dovuto. La Gioia Tauro di Carpignano, la Tuscia (e la Terra del fuoco…) di Re Granchio, il Friuli magico di Piccolo corpo, la rotta balcanica di Europa: antichi riti, mondi arcaici, lingue sconosciute. E finalmente un gruppo di giovani autori, dall’esperienza e dalla provenienza ibrida, che vanno al di là del convenzionale, cercano storie “altre”, rifuggono al moralismo. È una ricca dote, in questo senso, quella che ci lascia Cannes 2021: non dilapidiamola, non disperdiamola.

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