‘Bugonia’, Lanthimos e la tragicommedia di un’umanità ridicola | Rolling Stone Italia
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‘Bugonia’, Lanthimos e la tragicommedia di un’umanità ridicola

Dopo la liberazione punk (e il Leone d'oro) con' Povere creature!', il regista greco torna a Venezia con Emma Stone e un film meravigliosamente claustrofobico, satira caustica del nostro presente iperconnesso e iperfragile

‘Bugonia’, Lanthimos e la tragicommedia di un’umanità ridicola

Emma Stone (Michelle Fuller) in 'Bugonia'

Foto: Atsushi Nishijima/Focus Features

“Bello eh Lanthimos, però non ci vivrei”, cit. un collega appena usciti dalla proiezione. E invece: a Bugonia (al cinema dal 23 ottobre) ci viviamo tutti, immersi fino al collo in questa tragicommedia di un’umanità grottescamente ridicola. Altro che Povere creature! (pardon), forse ormai meritiamo davvero l’estinzione. “Le api stanno morendo, è stato pianificato così: vogliono farci fare la fine delle api”, dice Teddy, complottista di provincia con l’hobby dell’apicoltura, che rapisce (insieme al cugino Donnie) la CEO di una grande azienda farmaceutica, Michelle Fuller, convinto che in realtà sia un’aliena pronta a farci fuori tutti.

Lo avrete letto: Bugonia è il remake della commedia sci-fi sudcoreana Save the Green Planet! (2003), culto che mescolava torture, slapstick e paranoia ecologista. Maestro dell’überweird nel weird, virtuoso del bizzarro e del disturbante, Lanthimos non ne addolcisce le asperità, anzi: lima via il pulp e accentua il gelo che destabilizza. Fin dal titolo la sua è una dichiarazione di poetica: bugonia è il mito virgiliano (dal quarto libro delle Georgiche) per cui uno sciame nasce dalla carcassa di un bue in decomposizione. Il rito, narrato dai classici, è passato alla cultura pop come immagine hardcore di rigenerazione spontanea. Perfetto per Lanthimos, che prende un cinema “alto” e qui lo fa rispuntare da un immaginario anche greve, dolorosamente comico e crudele, un presente imbalsamato in una satira caustica, un rituale di ossessione e risate amarissime.

BUGONIA - Official Teaser Trailer [HD] - Only in Theaters October

L’adattamento resta fedele allo spigolo tonale dell’originale, ma sposta la satira sul nostro presente iperconnesso e iperfragile. È qui che il discorso sul “distopico” si rovescia. Lanthimos dice che oggi molta “distopia” non è nemmeno più distopia: è cronaca, tecnologia che corre, clima che crolla, guerre ovunque, negazionismi a catena. Se l’arte serve ancora a qualcosa, spiega, è a farci inciampare: a imporre quel mezzo secondo che serve per accorgerti che la gag ti ha sporcato le scarpe. È il suo cinema migliore: quando impasta etica e slapstick, dolore e deadpan, e ti chiede di ridere con la bocca chiusa.

E la sacerdotessa del suo cinema è Emma Stone, al quarto film con il regista greco, ormai più che musa, complice quasi simbiotica e specchio creativo, che ride in conferenza stampa quando le chiedono come gestisce il successo senza diventare un’aliena: “Innanzitutto: come fai a sapere che non lo sono già?”– è il tono giusto: ironico e minaccioso, come il suo personaggio. Ma l’officiante (clamoroso) qui è senza dubbio Jesse Plemons, già premiato a Cannes per Kinds of Kindness, che diventa il volto del fanatismo quotidiano: un uomo qualunque, esaltato, insieme mite e spietato, che ha trasformato la paranoia in religione, con quella dolcezza da psicopatico di campagna che ti offre un bicchiere d’acqua mentre stringe la corda. Lanthimos li mette in gabbia e lascia che il pubblico scelga di chi fidarsi. Spoiler: di nessuno.

Jesse Plemons (Teddy) in ‘Bugonia’. Foto: Focus Features

“Sognavo di lavorare con Yorgos”, confessa lo sceneggiatore Will Tracy (Succession, The Menu), specialista di ambienti chiusi e poteri corrotti, qui in trasferta nel territorio lanthimosiano. “Sembrava sapere esattamente dall’inizio di cosa trattasse questo film: voleva preservarne l’ambiguità, e per questo ha tanto impatto”. È la chiave: non capire mai se stai ridendo di un rapimento ridicolo o assistendo a un’apocalisse in diretta. L’ambiguità non è un vezzo, è un’arma.

Esteticamente Bugonia è un film più compatto e più sporco dei suoi precedenti. Niente scenografie da cartolina surrealista come in Povere creature!, niente virtuosismi barocchi: la messa in scena è scabra, claustrofobica, giocata quasi tutta sugli interni e su Teddy che corre da qualche parte. La macchina da presa insiste sui corpi e sulle facce in paranoia (meraviglia la fotografia iperreale, nitidissima e abbagliante delle immagini in VistaVision di Robbie Ryan), accentuando la sensazione di un mondo chiuso e malato. Il montaggio alterna momenti di parossismo a lunghe stasi in cui il silenzio diventa minaccia. È un Lanthimos che sembra guardare di nuovo ai suoi padri spirituali – Haneke, Kubrick, Buñuel – più che al cinema mainstream che lo ha adottato negli ultimi anni. Perché è vero che Lanthimos o lo ami o lo odi (da queste parti la prima, ovviamente), ma è pure vero che ci sono due Yorgos: il Lanthimos più “largo” e il Lanthimos più Lanthimos (pardon). Ecco, questo è un ritorno alle sue radici più dure e pure dopo le parentesi period piece punk hollywoodiana degli ultimi due lavori.

Se Povere creature! era un film che provava ad aprire strade e menti, Bugonia è un film che chiude, che contrae sul piano dell’immaginario: serra porte, stringe i personaggi in stanze senza finestre, mette lo spettatore nella stessa trappola dei suoi protagonisti. Anche sul piano veneziano, Bugonia funziona come contrappunto al Leone d’oro 2023: là la Disneyland della scienza, qui il seminterrato della fede; là la liberazione di Bella, qui il sequestro del senso. Venezia ha preso Lanthimos da autore weird e lo ha consegnato al mondo come Autore, capace di essere pop senza diventare banale e di tornare oscuro senza diventare opaco.

E mentre la commedia nera di Save the Green Planet! a suo modo alleggeriva il delirio, Lanthimos al contrario lo spinge fino al limite del sopportabile. C’è una ferocia morale che parla drittissimo al nostro tempo: la paranoia come condizione collettiva, la violenza come forma di verità, la paura dell’altro (alieno, industriale, capitalista, umano) come carburante per la sopravvivenza.

Se Povere creature! era un kolossal liberatorio, un luna park della differenza, Bugonia è il suo contraltare claustrofobico: niente espansione, niente liberazione. Solo una stanza chiusa e l’ossessione. Eppure è lì che viviamo tutti, ogni giorno: tra complotti online, apocalissi climatiche negate, leader che sembrano alieni perché forse lo sono davvero. “Bello eh Lanthimos, però non ci vivrei”. Ma la verità è che da Bugonia non si esce. Perché ci siamo già dentro, da tempo.