Cosa succede quando si passa dall’essere dei ragazzini di periferia un po’ eccentrici a delle star del fai-da-te su YouTube, al duo responsabile del più grande successo di genere di una casa cinematografica alla moda? Già affermatisi online con il nome d’arte collettivo RackaRacka, i registi e fratelli gemelli australiani Michael e Danny Philippou non sono certo spuntati dal nulla quando hanno presentato Talk to Me nel 2023 a un pubblico ignaro. Ma la loro storia di adolescenti che trovano una mano mummificata e maledetta e usano l’oggetto soprannaturale per contattare i morti durante una festa è finita per diventare il film horror con l’incasso più alto di A24 fino ad oggi. Improvvisamente, questi fratelli di Adelaide sono diventati ufficialmente the next big thing. Si parlava di sequel, spin-off e di un universo di franchise di Talk to Me più ampio. Hollywood li chiamava. Ci si chiedeva cosa avrebbero fatto dopo, quei due fratelli. E si sperava che non si sciogliessero o non si spegnessero nel tentativo di dare seguito a quel successo travolgente.
La buona notizia: i Philippou sono in qualche modo sopravvissuti all’esperienza di diventare il “gusto del mese”. La notizia ancora migliore: hanno realizzato un secondo lungometraggio che dimostra non solo di non essere una one hit wonder, ma anche di essere capaci di cambiare le carte in tavola. Non si potrebbe certo definire Bring Her Back – Torna da me (nelle sale italiane dal 30 luglio, ndt) un passo verso la “maturità” per i registi trentaduenni: c’è ancora un’energia euforica dietro alcuni dei momenti più stravaganti di questa storia di due adolescenti che si ritrovano nel mezzo di situazioni davvero losche. Una sequenza che coinvolge un ragazzo, un coltello da macellaio e dei denti suggerisce che questi signori amano ancora spingere il contatore in rosso. Ma c’è meno quel senso di tensione e di ricerca di attenzione tipico dei nuovi registi desiderosi di lasciare il segno, e più controllo, pazienza e maestria, in questa inquietante vicenda semi-gotica di elaborazioni del lutto andate male. Sono ancora disposti e capaci di spingersi agli estremi. La moderazione che mostrano tra picchi di adrenalina e scossoni di dopamina, tuttavia, rende il film molto più spaventoso.
Potreste pensare che l’incipit un po’ banale e inquietante, in cui gli spettatori sembrano essersi imbattuti in un misterioso rituale con circoli, omicidi, videocamere e uomini grassi e nudi che barcollano, sia una falsa pista. È semplicemente un seme piantato: basta tenerlo lì per dopo. I due personaggi di cui dovrete preoccuparvi immediatamente sono Piper (Sora Wong) e Andy (Billy Barratt). Lei è una studentessa liceale ipovedente che cerca disperatamente di integrarsi tra i ragazzi più fighi. Lui è il suo fratellastro maggiore, protettivo e super comprensivo, e hanno il tipo di rapporto in cui una parola in codice – “Pompelmo” – indica che uno dei due deve rispondere all’altro con assoluta onestà. I due sono molto uniti. Il che è un bene, perché il loro padre è appena scomparso inaspettatamente. E mentre Andy è ancora troppo giovane per essere il tutore legale della ragazza, la donna a cui è stato assegnato il loro caso dà loro un po’ di sollievo. C’è una famiglia, gestita da un’ex consulente per l’affidamento, disposta ad accoglierli entrambi finché Andy non raggiunge la maggiore età.
La loro nuova figura genitoriale si chiama Laura. Interpretata dalla grande Sally Hawkins (La felicità porta fortuna – Happy Go Lucky, Paddington, La forma dell’acqua – The Shape of Water), è socievole, un po’ svampita e amichevole in un modo palesemente ipercompensativo e ostinato. E c’è qualcosa di strano in lei fin dall’inizio. La figlia di Laura, anche lei ipovedente, è annegata tempo fa; c’è un senso di maternità surrogata che rasenta morbosamente la sostituzione totale nel modo in cui tratta Piper. Tra le sue fisse ci sono i bambini, i misteriosi cerchi di gesso intorno al vialetto e il suo cane – il cucciolo è morto, ma niente paura, l’ha fatto imbalsamare. Tra le sue antipatie ci sono i confini, le piscine (per ovvi motivi) e Andy. L’allegria che gli mostra è una facciata. È molto più interessata a sua sorella.
Oh, e c’è un altro bambino che vive in casa con loro: Oliver (Jonah Wren Phillips). Ha circa 10 anni, e anche in lui c’è qualcosa di strano. Non è solo che non parla; è muto dall’incidente, dice loro Laura. E sembra particolarmente aggressivo con il loro gatto. È più che altro il modo in cui Oliver si aggira costantemente ai margini, fissando tutto con sguardo assente, a inquietarli. È sempre lì, eppure in qualche modo non è affatto “lì”. Il fatto che debba essere chiuso a chiave nella sua stanza quando non c’è nessuno in giro non contrasta il vostro senso di disagio. Né la sua tendenza a sbattere la testa a sangue contro la finestra o la porta della casetta di legno in giardino, cosa su cui sembra piuttosto fissato. O il fatto che si rianima solo quando Laura, mentre gli fa il bagno, riconosce: “So che hai fame… dovrai solo aspettare ancora un po’…”.
Se non l’avete ancora capito, c’è un secondo piano dietro Laura e alcuni degli eventi più criptici che accadono in questa storia. E mentre la logica dietro alcuni degli aspetti soprannaturali di Bring Her Back è alla pari con la sospensione dell’incredulità impiegata in Talk to Me, è meno importante il come per quanto riguarda i numerosi colpi di scena della trama, e molto, molto di più il quando e il perché di tutto ciò. Fidatevi di noi quando vi diciamo che il film ha questo titolo per un motivo.
Ciò che è ovvio è che i fratelli Philippou sanno di avere una premessa valida e un cast di tutto rispetto. Sia Wong che Barratt hanno ben compreso il compito. Quando si ha la fortuna di avere un’interprete del talento e delle capacità di Hawkins, si lascia che si scateni sugli elementi più instabili del personaggio, sull’enfasi sul lutto come stato d’animo perenne e sulla visione aggressiva della maternità che la storia offre. Tendiamo a considerare l’intero cliché del giovane inquietante come un teenager abusato, nella maggior parte dei casi, eppure c’è qualcosa nel modo in cui Phillips interpreta questo ragazzino zombie che supera ogni stereotipo. Ti senti in dovere di guardarlo anche quando è sullo sfondo e apparentemente assente. E quando per lui parte il terzo atto… sì: la situazione si fa complicata.
Bring Her Back è ancora un’impresa caotica, nonostante quella che sembra una disciplina ritrovata, per non parlare di una padronanza superiore del ritmo e della tensione, che si manifesta dietro la macchina da presa. È una caratteristica o un difetto, a seconda di come si preferisce servire l’horror. Ma se il loro debutto usava il dolore come un modo più superficiale per ravvivare emozioni e brividi, quest’opera seconda tratta il tema come qualcosa di profondo e devastante. Quando quell’enigmatica apertura ritorna improvvisamente, capisci esattamente perché i mezzi che rappresenta potrebbero giustificare il fine che persegue. Si tira anche un sospiro di sollievo sapendo che questi ragazzi non vogliono solo scioccare per il gusto di farlo. I due registi vogliono scuotere il pubblico, certo, ma vogliono anche portarvi in un luogo in cui gli effetti emotivi di quel sussulto persistono a lungo, anche dopo che i salti sulla poltrona sono svaniti.
