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‘Black Panther: Wakanda Forever’: il re è morto, viva il re!

È inevitabile commuoversi mentre Ryan Coogler e il suo cast piangono T'Challa e l'attore che lo ha interpretato, Chadwick Boseman. Ripristinando la dinamiche di potere nel franchise con un film che è insieme un tributo doloroso e un blockbuster arrabbiato

Foto: Marvel Studios


Inevitabilmente, Wakanda Forever – il sequel by Ryan Coogler del rivoluzionario Black Panther (2018) – si apre su una nota triste. C’è dell’eroismo anche qui, certo. Questa è un’altra storia globale, panafricana e sfaccettata come quella originale, con un’ampiezza storica che va dall’invasione dei Conquistadores alle macchinazioni della CIA; un racconto armato di un cattivo con legittime argomentazioni che non possono essere facilmente respinte, un’attenzione estrema per i rituali e la tradizione, e un grande amore per le possibilità che la fede nel Wakanda può portare. Ma non possiamo andare avanti senza riconoscere ciò che abbiamo perduto. Non sarebbe giusto. Wakanda Forever lo sa. La morte nella vita reale del nostro T’Challa, Chadwick Boseman, a causa di un cancro al colon quando aveva solo 43 anni, è stato uno shock per la maggior parte di noi; della sua malattia erano a conoscenza solo poche persone. Coogler è rimasto così scioccato dalla sua perdita da prendere in considerazione l’idea di abbandonare il cinema.

Invece poi, lavorando con molti degli stessi collaboratori di quel primo film (tra cui la costumista Ruth E. Carter e la scenografa Hannah Beachler, che qui continuano a superarsi), è tornato con un sequel radicato nella rabbia, nel dolore e nel caos. Cosa succede a un regno senza il suo re? La risposta di Wakanda Forever è che le persone che sono capaci di soffrire lo faranno, e le persone che non ci riescono – che si chiudono in se stesse, arrabbiate per lo shock di un mondo che non ha più senso – hanno un po’ di ricerca interiore da fare. È un rischioso dilemma al centro di molti racconti di eroi. La scelta tra l’accettazione e una sete incontrollabile di vendetta, giustizia e furia divorante.

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Ma, sin dall’inizio, Black Panther ha fatto di tutto per ricordarci che non è come gli altri franchise di supereroi. Le potentissime lotte dei suoi eroi e dei suoi cattivi affascinano perché sono radicate in qualcosa di molto più grande del semplice viaggio di un eroe. T’Challa non era semplicemente un eccentrico outsider con un destino eroico a cui aggrapparsi se solo avesse creduto in se stesso (o in un destino che avrebbe potuto seguire semplicemente non provandoci affatto, assicurando il suo futuro con un’enorme eredità). Né era costretto a vendicare una perdita. La vendetta non era il suo gioco. Era un protettore. Il destino di una nazione nera era sulle sue spalle fin dall’inizio – e una legione di antenati, di cui era fin troppo consapevole, lo guidava, esaminandolo, fin dall’inizio.

E così, quando Wakanda Forever si apre con T’Challa che soccombe a “una morte improvvisa per una malattia sconosciuta”, come afferma un notiziario, un punto interrogativo aleggia su tutto. Basti dire che quando una nazione come il regno del Wakanda perde il suo re, le altre tendono a sentirne la debolezza. Tutti vogliono il vibranio; ogni nazione potente ha bombe da costruire. Ma anche la madre di T’Challa, Ramonda (Angela Bassett), che ora guida il Paese, sta cercando di sopravvivere al lutto. Così come la sorella di T’Challa, Shuri (Letitia Wright). I guerrieri di Dora Milaje, guidati da Okoye (Danai Gurira) e Ayo (Florence Kasumba), sono temibili come sempre, ma il dolore è un nemico più difficile da combattere. Nakia (Lupita Nyong’o), che amava T’Challa, ha lasciato il Wakanda. Il buonumore del guerriero M’Baku (Winston Duke), con le sue parole pacate e le sue pellicce fighissime, può consolare fino a un certo punto. Sono tutti un po’ smarriti.

Letitia Wright in ‘Black Panther: Wakanda Forever’. Foto: Marvel Studios

Ma, come dicevamo: tutti vogliono il vibranio. Se non riescono a ottenerlo dal Wakanda, lo cercheranno altrove. Il sequel di un franchise così importante ha il difficile compito di trovare una nuova via da seguire attraverso quello che ci è familiare, ricordando a milioni di persone quello che ci ha portato qui a vedere qualcosa di nuovo. Wakanda Forever ha, in questo senso, molto coraggio. La strada che sceglie introduce un nuovo giocatore in questo conflitto mondiale: un uomo simile a un dio di nome Namor (Tenoch Huerta), re dell’antica civiltà Talokan. Nei fumetti, Namor proveniva da Atlantide. Questo potrebbe essere un indizio della sua provenienza in questo film, in cui quelle origini sono sostituite da una backstory mesoamericana e una serie di sospetti e ambizioni che sono in qualche modo giusti per il Wakanda. Eppure è qui che si insinua ciò che ci è già familiare. Come il Killmonger di Michael B. Jordan del primo film, il cui nome evoca letteralmente la rabbia, Namor non è così preso dal pacifismo del Wakanda. Di più: è altrettanto potente. Per la prima volta, questa terra iperprotetta e afrofuturistica fronteggia un degno avversario.

E questo è in linea con ciò che è stato raccontato prima. Sia Black Panther che questo sequel spiegano bene lo strano ma ricco insieme di contraddizioni nel modo in cui il Wakanda vede il suo posto nel mondo. Questa nazione è orgogliosamente, sfacciatamente la più potente, grazie in gran parte al suo unico accesso al vibranio, e ancora di più alla cerchia di menti geniali – mostrata con orgoglio dai film – che sanno come utilizzarlo. Ma è anche una terra molto legata ai suoi sospetti nei confronti del resto del mondo: una terra che è stata colonizzata. Parte di ciò che distingue i film di Black Panther dagli altri titoli sui supereroi è il loro camminare sul filo di questa tensione, tra le più alte forme di potere mondiale e le paure più profonde di perderlo. È ciò che rende il discorso di Namor così convincente: questa profonda e immediata consapevolezza di essere stato derubato, di aver visto in prima persona il colonialismo e aver imparato, quando era solo un bambino, cosa significa. Il vibranio è una risorsa simile al petrolio: non è tanto un superpotere, ma un bersaglio sulla schiena di una nazione. E non c’è conforto nell’essere un bersaglio.

Wakanda Forever dura due ore e 40 minuti, e in gran parte è un buon film. Fa un uso ancora migliore delle sue star rispetto alla prima volta, aggiungendo più personalità ai suoi punti forti, più tempo per la grandezza di Gurira e per l’atteggiamento bizzarro di Wright, più saggezza per Duke e Bassett e godibili apporti dei nuovi arrivati, come Dominique Thorne e la fantastica Michaela Coel (I May Destroy You). È un film cupo, per molti versi, con una gamma visiva più scura rispetto al suo predecessore e una pesantezza generale che rende alcune delle sue incursioni nelle tipiche battute Marvel un po’ strane (anche se l’occasionale comic relief è, ogni tanto, il benvenuto). Il lato “tecnico” delle cose però non sempre funziona. Alcune delle sue enormi battaglie rischiano di colpire una nota stranamente impersonale nel bel mezzo di un film la cui posta in gioco è così personale. I dialoghi sono spesso più taglienti dei combattimenti, che possono risultare confusi. Coogler – il cui miglior film è probabilmente ancora Creed – è bravo in tutto, ma in Wakanda Forever eccelle soprattutto in scene come il nostro primo incontro con Namor in un attacco a una missione mineraria sottomarina, una sequenza incentrata sulla costruzione di un senso di mistero. Il film non è sempre così sicuro di se stesso. Ma ci sta: è un film più disordinato, che cerca di fare i conti con un gran caos di sentimenti.

Angela Bassett torna nei panni di Ramonda in ‘Black Panther: Wakanda Forever’. Foto: Marvel Studios

In questo mondo i radicali più puri, i rivoluzionari più lungimiranti, sono caratterizzati da un atteggiamento senza paura nei confronti della violenza. La ritengono necessaria. Vogliono abbattere il mondo e ricostruirlo, una prospettiva difficile per il Wakanda, che non vuole usare la sua potenza in quel modo. Ci sono momenti in Wakanda Forever in cui è giusto chiedersi per chi stiamo davvero facendo il tifo. Più che mai è evidente nelle scene che coinvolgono la CIA (incarnata da un Martin Freeman che ritorna nei panni di Everett K. Ross, nonché da un cameo sorprendente e divertente che non vi rovinerò). Qui Wakanda Forever inciampa; il rapporto tra il Wakanda e il suo “colonizzatore preferito” è un po’ troppo “carino”, un po’ troppo amichevole, senza neanche avvicinarsi al livello di attenzione che il film investe sul resto della sua storia. Questo è un altro segno distintivo del franchise, finora. Ci sono cattivi e cattivi. Per chi dovremmo tifare? Non c’è dubbio. Ma c’è ancora spazio per chiedersi se dovremmo farlo davvero.

Da Rolling Stone USA

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