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‘Beau ha paura’: il complesso di Edipo secondo Ari Aster e Joaquin Phoenix

L’autore di ‘Hereditary’ e ‘Midsommar’ firma il suo film ad oggi più personale e ambizioso, in cui mischia horror e commedia. E regala al divo di ‘Joker’ il suo ruolo forse più profondo. C’è troppa carne al fuoco, ma questo caos finisce per sedurre. La nostra recensione

Foto: A24

Mamma e papà ti fottono
Magari non lo fanno apposta, ma lo fanno
Ti riempiono di tutte le colpe che hanno
e ne aggiungono qualcuna in più, giusto per te
(Philip Larkin, Sia questo il verso)

Il miglior amico di un ragazzo è sua madre
(Norman Bates)

Forse qualcuno, dopo aver visto questo film, farà partire un crowdfunding per pagare un analista ad Ari Aster. In soli due film, il regista e sceneggiatore 36enne si è imposto come maestro dell’horror di nuova generazione, e come un autore vero in un’epoca piena di troppi aspiranti al titolo. Hereditary – Le radici del male (2018), dramma famigliare travestito da horror satanico (o forse viceversa), era il tipo di esordio sbucato dal nulla che chiedeva allo spettatore tanta pazienza, una grande concentrazione e, soprattutto, un sistema nervoso stabile. Midsommar – Il villaggio dei dannati (2019) è diventato non solo un instant classic, ma ha saputo trasformare il paganesimo horror-folk nel mezzo per un intelligente e sovversivo studio sui generi anche sessuali: una sorta di Wicker Man al tempo della quarta ondata di femminismo. Entrambi i film sono angoscianti, inquietanti, e sembra che vogliano spingerti in quei territori di autoanalisi che ti mettono a disagio e ti spaventano a morte. Entrambi sono collegati tra loro meno dal genere di appartenenza e più da una meticolosità da control freak e dal prodigioso senso per ciò che ci tormenta nel profondo, vale a dire nei recessi della nostra mente.

“Divertente” non è certamente il primo aggettivo che viene in mente per descrivere quei due film, anche se entrambi in entrambi si rintraccia lo stesso sense of humour nerissimo – quel genere di nero nella scala che va da “pece” ad “abisso”. Beau ha paura, il suo ultimo film (nelle sale italiane dal 27 aprile distribuito da I Wonder Pictures, ndt), stavolta invece non ha paura (pardon) di farvi ridere a crepapelle. Ci sono troppi livelli in questa farsa che va a 200 all’ora, troppe gag visive piazzate in primo piano o sullo sfondo, troppe battute per fraintendere tutto questo: c’è davvero un lato comico evidente (vedi il pasto pronto ribattezzato O’Loha, che unisce “il meglio della cucina hawaiana e irlandese”). Ma, al tempo stesso, il film è facilmente catalogabile come l’opera partorita da colui che ha contribuito a definire quello che ora tutti chiamano “horror della A24”. La paura travolgente è ancora parte fondante del Dna del suo cinema.

Solo che ora Aster ha fatto qualcosa che rompe completamente il confine tra commedia e horror, tra intimo e patologico. Beau ha paura è forse autobiografico o forse no: Aster non lo rivela, così come non ha mai rivelato se ama i pranzi del Ringraziamento. Ma ci sono evidentemente dei traumi su cui l’autore vuole lavorare attraverso questo racconto epico e edipico. E anche se ci sono parecchi punti di contatto, in quanto a delirio e assurdità narrativa, con un recente successo targato A24, il fatto che lo Studio ci regali ora il gemello cattivo del fresco vincitore dell’Oscar per il miglior film suona esso stesso come un atto sovversivo: Beau ha paura è, a tutti gli effetti, l’anti-Everything Everywhere All at Once. Il film dei Daniels voleva guarire un trauma generazionale; il film di Aster vuole rigirare le dita nella piaga che ha prodotto quel trauma.

Non è una coincidenza il fatto che Beau – interpretato da un folle, scatenatissimo, bravissimo Joaquin Phoenix – ci venga presentato mentre sta dirigendosi verso una seduta di terapia (il commento sul crowdfunding di cui sopra era solo in parte ironico). Il film stesso inizia con un prologo fatto di rumori strani, buio e urla. Capiamo molto preso che siamo dentro il grembo di una donna, e che stiamo assistendo alla nascita di colui che diventerà la nostra guida per le successive tre ore. “Perché non sta piangendo?!?”, grida istericamente la madre; il neonato è appena venuto al mondo e lei sta già dando di matto. La visione del mondo del film sta tutta in questa premessa: la vita è dolore; l’amore è paura; la maternità è sinonimo di ansia; dopo il Giorno Zero, è tutto in discesa.

Torniamo nello studio dell’analista. Beau sta raccontando al medico (Stephen McKinley Henderson) il suo sogno ricorrente. Ovviamente ha a che fare con sua madre, Mona (interpretata, a seconda dell’età, da Zoe Lister-Jones e Patti LuPone); madre che lo chiamerà proprio nel bel mezzo della seduta. Beau guarda il telefono che squilla come se fosse un cancro. “Vorrebbe mai che fosse morta?”, domanda l’analista, subito seguìto dalla protesta del paziente: certo che no! Anzi, Beau le farà visita il giorno seguente, che poi è anche l’anniversario della morte del padre. Come potrebbe desiderare la sua morte? È sua madre. Lo ama.

È questa la stele di Rosetta freudiana che Beau ha paura usa come perno di tutto. Ma prima… un bell’incubo metropolitano! Il film è suddiviso in quattro atti, e non è improprio dire che il primo è un esercizio di stile fin troppo lungo e compiaciuto. Beau vive in un appartamento situato nella zona della sua città, l’immaginaria Corina, più malfamata, popolata da un’umanità che sembra uscita da un quadro di Bosch: gente poverissima, zombie viventi, senzatetto a ogni angolo. Beau non trova più le chiavi del suo appartamento, all’improvviso la carta di credito smette di funzionare, e a poco a poco finisce per perdere anche la sanità mentale – se non, addirittura, la vita.

Ciò che fa muovere tutto, tuttavia, sono due telefonate. Una è a sua madre, per dirle che non può più andare a trovarla. Si può facilmente avvertire la delusione nella voce della donna, e il senso di colpa che, come un veleno, instilla nel sangue di suo figlio, il quale continua a scusarsi fino a mortificarsi. La seconda telefonata avviene la mattina dopo, quando un corriere di UPS informa Beau che la madre è stata trovata morta: un lampadario le è caduto sulla testa fracassandogliela.

Quello che segue è una sorta di odissea in cui Beau fa di tutto per riuscire ad essere presente al funerale: c’è una disposizione testamentaria per cui la donna non può essere sepolta in assenza del figlio. Prima l’uomo, reduce da un incidente, è costretto a passare qualche giorno nella casa di una coppia (Nathan Lane e Amy Ryan) che finirà per trattarlo come il figlio caduto in guerra; nella stessa casa, la tipica villetta della suburbia americana, viene preso in ostaggio dalla figlia adolescente e sociopatica dei due (Kylie Rogers) e dall’amico del figlio che vive con loro e che soffre di disturbo post-traumatico (Denis Ménochet). Un incontro nel bosco con una compagnia teatrale trasforma tutto in una sorta di favola in stile fratelli Grimm. E c’è anche la sottotrama che riguarda una donna di nome Elaine (Parker Posey) che Beau vede in un notiziario, e che potrebbe essere quella stessa Elaine che aveva incontrato da piccolo durante una crociera con sua madre; da adolescenti si erano poi baciati, e lei gli aveva chiesto di aspettarla fin quando non fosse tornata, ma poi…

C’è tantissima carne al fuoco, e Aster ti getta sempre più roba addosso – forse anche perché aveva troppe idee in testa, tutte insieme. Se si può accusare Beau ha paura di qualcosa, è la smisurata ambizione del suo autore: tutta la prima parte è un numero da vero e proprio virtuoso (ma anche un po’ troppo caricaturale) che alla lunga rischia di annoiare gli spettatori, invece di creare il contesto del film in cui accoglierli. Lo stesso vale per la lunga sequenza che unisce animazione, teatro e tragedia greca: una sorta di parabola che serve a dirci che quella che Beau chiama vita è solo una serie ininterrotta di attacchi di panico. Tutto il Cinema (con la maiuscola) che trasuda dallo schermo è al tempo stesso entusiasmante e sfiancante.

Joaquin Phoenix con Nathan Lane e Amy Ryan. Foto: A24

E veniamo al “fattore Mamma”, al centro di tutto il discorso psicologico del film. Ci sono due cose che restano cruciali ed evidenti anche quando la tensione e il caos – soprattutto il caos – finiscono per regnare su tutto. La prima è la performance di Phoenix, che è incredibile anche per i suoi standard sempre altissimi. Aster gli ha regalato un personaggio grandissimo, e l’attore gli ha reso il favore dando tutto sé stesso. Siamo abituati a vederlo andare verso questi territori, a guardarlo mentre si mostra “nudo e spaventato”; ma Beau è il ruolo che gli permette di andare ancora più in profondità, cosa che nemmeno certi registi di Serie A gli avevano ancora consentito di fare a pieno. Senza menzionare il fatto che è davvero nudo e spaventato nella maggior parte delle sequenze. Questo potrebbe essere l’inizio di una bella amicizia tra due artisti che non si fermano davanti a nulla (in realtà gira già voce che Phoenix potrebbe essere il protagonista, insieme a Emma Stone, anche del prossimo film del regista, ndt).

La seconda è il martellante refrain a proposito di ciò che ereditiamo dai nostri genitori, e in particolare su come la figura materna può formare la nostra visione e il nostro stare nel mondo in modo che è tutto fuorché sano. È un ritratto in cui potranno immedesimarsi molti spettatori, e non solo maschi. Sia Lister-Jones che LuPone sanno come mettere tutti i tratti più mostruosi di Mona in un ritratto che consegna una sensazione reale di narcisismo, manipolazione, transfert. LuPone in particolare comprende che il modo in cui Mona attacca le persone che ama è un semplice meccanismo di difesa.

A tutto questo si aggiungono momenti totalmente “ma cosa cazzo…”, che vanno dalla violenza più efferata a uno scroto ingrossato, passando per Always Be My Baby di Mariah Carey. Ci sono così tanti tocchi barocchi e visionari che la tentazione di definirlo “Quarto potere col complesso di Edipo” è fortissima. Aster è un cinefilo, quindi forse ci perdonerà se faremo un altro paragone: questo è – o vorrebbe essere – il suo, cioè un film in cui un regista mette tutta la sua potenza estetica e formale per dare sfogo a un flusso di coscienza totalmente intimo e spudorato. È l’uomo dietro la macchina da presa quello che finisce per essere più divertito e spaventato da tutto questo. È lui ad averci dato un’opera che, in fin dei conti, finisce per accusare solo e soltanto il suo stesso autore.

Da Rolling Stone US

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