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‘Anemone’ è molto di più che il ritorno di Daniel Day-Lewis

Sì, l'interpretazione del premio Oscar nei panni di un recluso alle prese con il suo passato traumatico ci ricorda perché è una leggenda. Eppure questo dramma familiare è tutt'altro che una mera vetrina

Foto: FOCUS FEATURES

Lo senti prima di vederlo. Ci sono i disegni, fatti da un bambino, di soldati e conflitti, bandiere irlandesi, pub in fiamme e corpi separati dalle loro membra. Poi appare un paesaggio pastorale, un ritratto della natura che sarebbe idilliaco se non fosse per il minaccioso cielo grigio. Si prepara una tempesta non troppo lontana. C’è silenzio. E poi sentiamo qualcuno che lavora duramente. Intravediamo una figura curva e muscolosa, di spalle alla macchina da presa. Sembra che stia strappando le radici di qualcosa dal terreno sassoso, un gesto che diventerà molto più simbolico con il procedere della storia. Ci ricorda subito un altro uomo misterioso apparentemente in guerra con la terra stessa. Il suo volto è oscurato. Eppure è familiare.

Anemone, il film d’esordio dello scrittore, artista e regista Ronan Day-Lewis, sarà salutato innanzitutto come il ritorno di Daniel Day-Lewis – premio Oscar, attore cinematografico più grande di sempre, simbolo di dedizione assoluta al mestiere – quasi un decennio dopo aver annunciato di aver smesso di recitare (il film è stato presentato in anteprima al New York Film Festival ed esce nelle sale oggi, giovedì 6 novembre, qui l’intervista a entrambi). Non sai cos’hai finché non lo perdi, si dice, e guardare il Day-Lewis senior interpretare Ray Stoker, un ex soldato britannico che vive in un esilio autoimposto, esemplifica perché la sua assenza dal cinema abbia lasciato il mezzo cinematografico un po’ più povero. Quella particolare alchimia in cui l’unione di un certo interprete e di una cinepresa crea sia un “momentum” che qualcosa di molto più profondo è già presente nelle sue prime apparizioni dove non dice una parola. Ci viene ricordato perché si parla regolarmente di lui con ammirazione e stupore, e perché la sua reputazione come uno degli artisti più straordinari e camaleontici di sempre sia meritata.

Eppure l’impulso di trattare questo incredibile sguardo su come le eredità del dolore riecheggino attraverso le generazioni come una semplice vetrina per la formidabile disciplina e il talento della star dovrebbe essere messo da parte, perché significherebbe sottovalutare il film stesso. Anemone è tanto un’introduzione a un artista quanto una reintroduzione a una presenza scenica che ci mancava terribilmente. E anche quando si avvicina a quel tipo di territorio estetico d’autore che può far alzare gli occhi al cielo, questa esplorazione di quello che si cela nei silenzi tra legami di sangue e nella difficoltà di superare le proprie tragedie vi farà sentire come se steste guardando qualcosa di veramente unico. È l’opera di un giovane regista. Ma è anche in gran parte il lavoro di un vero regista pieno di creatività, che affina la propria visione in tempo reale. Per citare un altro membro del clan di questo cineasta: bisogna prestare attenzione (da una celebre battuta di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, padre della moglie di Daniel Day-Lewis e madre di Ronan, la regista Rebecca Miller, ndt).

L’attenzione, ironia della sorte, è l’ultima cosa che Ray desidera. Ha vissuto in solitudine nei boschi dell’Inghilterra settentrionale per decenni, cercando di curare le sue ferite psichiche. Stoico è un eufemismo per descrivere il suo comportamento. Non è geograficamente lontano dalla civiltà, anche se potrebbe benissimo essere a diverse migliaia di anni luce di distanza, e ti chiedi da quanto tempo non rivolga più di qualche parola ad alta voce a un altro essere umano. Ray non ha contatti con la sua famiglia da secoli, ma le cose stanno per cambiare. Suo fratello, Jem (Sean Bean), ha contribuito a crescere il figlio di Ray, Brian (Samuel Bottomley), come se fosse suo. È però preoccupato per suo nipote, dato che il ventenne mostra la stessa volubilità e propensione alla violenza del padre assente. Quelle croste insanguinate sulle nocche di Brian la dicono lunga.

Come suo padre, si è arruolato nell’esercito. C’è stato un alterco e ora Brian deve subire le conseguenze delle sue azioni. Ma la madre del ragazzo, Nessa (Samantha Morton), pensa che ci possa essere un modo per impedire a suo figlio di perdere completamente la sua anima. Il problema riguarda Ray. Così, come in una fiaba, Jem deve avventurarsi nel profondo del bosco e riportare alla civiltà il fratello, che da tempo si è estraniato da tutti. Conosce solo la longitudine e la latitudine a cui si trova l’uomo, nient’altro. Qualche tempo dopo, Ray sta armeggiando quando sente un rumore fuori dalla sua baita. Lo vediamo prendere un’ascia, la macchina da presa inquadra un primo piano della sua mano pronta per la battaglia. Poi si sente un clicker che digita una sorta di codice. La mano di Ray allenta la presa sull’arma. Sa chi c’è fuori dalla sua porta.

Sono tocchi di sobrietà come questo, il modo in cui un semplice gesto non detto racconta tutto, che ci fanno sentire che dietro la macchina da presa c’è un narratore silenzioso e dinamico. Anemone ha molte di quelle inquadrature sobrie e perfette che aiutano a bilanciare alcuni degli svolazzi più eccentrici e deviazioni più allucinogene; una semplice conversazione tra i due fratelli può lasciare il posto all’immagine di una donna angelica luminosa che fluttua sopra il letto di Ray, o all’apparizione di una creatura con un collo allungato, un volto umano e un pene minuscolo. (È importante sapere che Ronan è anche pittore e scultore, e questa bestia enigmatica ha un legame con le sue opere passate). Ciò che inizia come realismo quasi operaio può di colpo trasformarsi in iperrealismo lynchiano, e il particolare mix di Anemone tra una pièce a due in stile Samuel Beckett, un dramma sui traumi passati e un’opera che esplora la mascolinità come una prigione rischia di alienare tanti spettatori quanti ne impressiona.

Daniel Day-Lewis e Sean Bean in ‘Anemone’. Foto: Focus Features

Nessuna delle categorie sopra menzionate tende a includere un aneddoto sensazionale che coinvolga un abusatore, un confronto e l’improvvisa espulsione di diversi piatti a base di curry e Guinness come pezzo forte. E fidatevi di noi quando vi diciamo che l’interpretazione di Daniel Day-Lewis di questa vendetta scatologica è, di per sé, una masterclass. È esilarante, terrificante e suona come una suite sinfonica altrettanto profana. Sia il padre che il figlio condividono i crediti di sceneggiatura del film, e sebbene il Day-Lewis più anziano abbia apparentemente improvvisato questo ricordo di defecazione epica durante le loro chiacchierate – si potrebbe dire che sia esploso dal suo subconscio come un geyser – testimonia la collaborazione che si percepisce ancora nel personaggio e in perfetta sincronia con il film nel suo complesso. Ronan potrebbe aver scatenato il kraken lasciando che il suo protagonista si avventurasse a suo piacimento in un territorio così selvaggio, eppure imposta il film in modo da accogliere sia espressioni silenziose che incontrollabili sbalzi d’umore. La performance principale non eclissa mai il film, sembra racchiusa in qualcosa che può espandersi e contrarsi a seconda delle necessità.

Gli altri membri del cast – quelli che non si chiamano Daniel Day-Lewis – sono altrettanto precisi, con Sean Bean che funge sia da zavorra che da sparring partner all’altezza del compito per il suo co-protagonista. Nei panni della moglie tormentata di Ray, Samantha Morton dimostra ancora una volta di essere un’esperta “interprete da sei pollici”, nel senso che basta posizionare l’obiettivo a quindici centimetri dal suo viso e lei può offrire un’intera performance in un unico primo piano. Ti sembra di conoscere questa donna nonostante il poco tempo sullo schermo e ancora meno dialoghi. Bottomley ha dato profondità al protagonista del coming of age di Molly Manning Walker del 2023 How to Have Sex, e fa lo stesso con il giovane gentiluomo chiuso in sé stesso che rischia di soccombere alla maledizione di famiglia.

E, naturalmente, si è sempre consapevoli che Ray è il personaggio al centro di tutto, colui che, come il fiore che dà il titolo ad Anemone, chiude i petali all’avvicinarsi di una tempesta. L’interpretazione audace by Day-Lewis di quest’uomo tormentato assicura che i suoi problemi conferiscano al film la sua qualità di bomba a orologeria e il suo sguardo il suo stato di grazia. Persino coloro che potrebbero criticare questo esordio alla regia per aver occasionalmente ceduto all’ansia di essere influenzati riconosceranno che si tratta di un’impresa. Dimenticate, per un secondo, che questo potrebbe essere un episodio straordinario per il leggendario attore o l’inizio di un nuovo, fertile capitolo. Consideratelo invece il prodotto di due artisti, distanti generazioni, che hanno trovato un terreno comune e ne hanno ricavato qualcosa di straordinario.

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