Le ragazze, nei film di Andrea Arnold, non sorridono mai. Le donne sono diverse: a loro capitano fugaci felicità artificiali. Droghe, alcol, sesso. Rassegnazione da sollevare nei quartieri inglesi popolari, periferie sociali. Un uomo serve, di solito, per portare il soldo. Se gli si sopravvive, al massimo lascia qualche figlio in più.
Le ragazze non sorridono, nel cinema della regista britannica, perché hanno ancora il coraggio, e una vena di illusione ben celata, di dirsi le cose come stanno. Man mano che si cresce è difficile, ammettersi che ci si è intoppate. Che, se si guardasse davvero nell’abisso… eccetera, eccetera. Non hanno tempo da perdere. Devono prendersi cura del genitore, di solito la madre, di turno.
Senza ricorrere all’autofiction, è questo il mondo di Arnold. Nasce nel Kent tra le case popolari e lì rimane con il suo immaginario. Che appare con la direzione della fotografia di Robbie Ryan, anzi: è lei che lo lancia. Poi lui lavorerà con Yorgos Lanthimos, Noah Baumbach, Ken Loach. Tornerà sempre sui set di Arnold, lavorando quasi ritualisticamente con la cinepresa a mano. Non è un Dogma-inserire-numero, ma un’esistenza che si sviluppa veloce, senso di pericolo e precarietà. Le ragazzine lo sanno.
In Bird, ultimo lungometraggio di Arnold presentato l’anno scorso a Cannes e da oggi nelle sale italiane, la protagonista è appunto una ragazz(in)a. Bailey (l’esordiente Nykiya Adams) ha dodici anni, un padre (adorabilmente) fannullone, Bug (interpretato da Barry Keoghan), numerosi fratelli e sorelle. Guarda gli uccelli perché, nel cielo, sembrano liberi. Bailey è tutt’altro: schiacciata, preoccupata, solitaria nell’accezione deteriore del termine. Qualcuno che non si ritrova, né con sé né con gli altri.
I suoi coetanei vivono di espedienti e si divertono caricando online video di violenza. La madre, che vive separata da Bug, ha un nuovo, pericoloso compagno. Il fratello Hunter deve vedersela con la famiglia della fidanzata: l’ha messa incinta a quattordici anni. Bug vuole sposarsi con la nuova fiamma conosciuta da tre mesi e per racimolare i soldi si è procurato un rospo che secerne liquido allucinogeno quando ascolta “dad music“: Yellow dei Coldplay, cose di quella risma.
A fornire un centro inaspettato arriva Bird (Franz Rogowski). Siamo di nuovo nel Kent, dopo che Arnold ha girato in America, per storie americane e insomma; aveva lasciato alle spalle la terra ma non la ragazza che anche lei, in un modo che non sapremo mai, è stata. Chissà se rideva. Succede dopo altre rivoluzioni: grandi nomi, maggiori se si pensa alla dimensione indipendente e radicale dell’arte di Arnold. Processi lunghi, i suoi. Tra storia, fondi, montaggio.
Il suo Fish Tank, nel 2009, rivisitazione del kitchen sink drama novecentesco, lancia Michael Fassbender. Il video di Bug, singolo dei Fontaines D.C., è parte del film ed è girato appunto da lei. Il protagonista è il personaggio di Keoghan e il testo dialoga con Bird: “Well, I changed my name to “Promise-You”, yeah / It’s easier than making apologies, yeah / Now I’m higher than anyone here / And dirt ain’t nothing on me“. “Mi chiameranno “te lo prometto” / È più facile che chiedere scusa / Ora sono fattissimo, e nulla mi tocca“. E poi Shia LaBeouf, Riley Keough.

Nykiya Adams in una scena del film. Foto: Lucky Red
Arnold torna nel Kent e ci porta una non-fiaba: mette le penne a Rogowski, certo, ed è una metafora. Uno spiccare il volo salvifico che ha solo a che vedere con la vita reale, mica con le cose che poi non sono. La ricerca del personaggio, un weirdo tornato in città per trovare il padre, è quella di una verità e la stessa che avverte Bailey. Che alla fine è un mettersi in gioco, una dimostrazione di presenza: io ci sono, e tu? E voi adulti che ridete come buon viso a cattivo…?
Bird ci sorveglia, il suo personaggio lo fa insieme al film. Il cinema di Andrea Arnold è stato e continua a essere un’evidenza. Un cinema di urla, di corpi ma anche, quando il giro è finito, di speranza. Per nulla “femminile” nel senso dell’eleganza che, ahimè, si associa a tutto ciò che esce da mano di donna. Un cinema di ragazze però, certamente. Non sorridono, però vorrebbero. Lo farà anche Bailey, lo faceva Mia, protagonista adolescente di Fish Tank. In un mondo in cui anche solo dare il nome a un bambino sembra un atto contro natura, a un certo punto anche loro, di tenerezza, crollano. Abbassano la guardia.

Franz Rogowski è Bird. Foto: Lucky Red
Mia lo faceva esponendosi verso persone di cui non sapeva, alla fine, se fidarsi. Bailey ha il privilegio di esserle sorella minore, di arrivare dopo nella carriera di Arnold. La quale, nel tempo, non si è resa più morbida. Però forse ha aperto una possibilità che nemmeno lei – pensiamo alla meravigliosa crudezza di Wasp, cortometraggio che le valse l’Oscar all’inizio della sua carriera – era pronta a concedersi. Un legame umano vissuto con spontaneità sincera nel mezzo dell’inferno. Quella cosa da custodire e curare per saper vivere, scriveva Italo Calvino nelle Città invisibili.

Barry Keoghan alias Bug. Foto: Lucky Red
Nulla è invisibile dalle parti di Arnold, se non forse la soluzione. L’agglomerato urbano lo è nel senso greco della polis: la comunità è dispersa, e tra gli emarginati vale solo la partita al ribasso. Farsi andare bene, che non si sa se poi. Se questa è sensibilità femminile, tanto meglio. Oppure siamo umani, e come vuole l’adagio, nulla di umano ci può essere estraneo.
Sarebbe, alla fine, è una cosa un po’ contro natura, come una ragazzina che sogna piume di uccello. Viva Andrea Arnold e queste storie che non sanno davvero finire.