Il nuovo film di Julia Ducournau, Alpha, nelle sale italiane da domani 18 settembre, è ambientato in una Francia ucronica degli anni Novanta circa, in cui l’epidemia di infezioni da HIV non fa sviluppare l’AIDS ma trasforma lentamente i malati in pietra; e io non ho capito bene perché.
Tutte le altre regole tengono: infezione attraverso il contatto diretto con il sangue o con i fluidi sessuali, paure rampanti e ossessioni salivari, eroinomani coinvolti, pure la famosa “aura viola” di discriminazione replicata in una scena di dissanguamento della protagonista in piscina. Tranne questa questione della pietra. E io non ho capito perché. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, Alpha è stato salutato come il nuovo body horror da una regista che, dopo Raw e Titane, ci avrebbe fatto intuire che di solo body horror è fatta la sostanza dei suoi sogni. Ma pure qui meglio fare un po’ d’ordine.
Alpha (Mélissa Boros) è una ragazzina di 13 anni che vive con la madre (innominata, la interpreta Golshifteh Farahani) in una Francia possibile, ma che non si è mai realizzata. Non in senso buono: dettagli di abbigliamento e paesaggio ci riportano a venti, trent’anni fa, e la modificazione appunto ucronica della storia riguarda proprio l’epidemia che in quegli stessi anni mieteva vittime, l’AIDS. Solo che, appunto, non si tratta di sindrome da immunodeficienza acquisita, bensì di pietrificazione. Una medusa interiore che non lascia scampo. Una storia che non è stata; oppure, che si è verificata in una veste diversa.
La forma del tutto, in effetti, non cambia. Nei primi secondi siamo gettati in medias res in una situazione-squat in cui (trigger warning) un ago molto forte, incredibilmente vicino, scava con malagrazia nella carne di Alpha. È un tatuaggio hand-poked eseguito particolarmente male, sia dal punto di vista artistico che sanitario. Mezza svenuta, la nostra si ritrova con una gigantesca A nera sul braccio, e con forse un’infezione (in quel momento) mortale in più. Con lei l’amico (ma pure flirt clandestino, perché c’ha già la ragazza!) Adrien (Louai El Amrousy), che la salva un po’ in ritardo, cioè, la perde di vista quanto basta per far avvenire il patatrac. Nota a margine: ma com’è che c’è sempre un personaggio, nella Ducournau, che si chiama Adrien? Glielo chiederò se mai la beccherò.
Foto: Mandarin Compagnie/Kallouche Cinema/Frakas Productions/France 3 Cinéma
Da lì, un sacco di problemi. Per Alpha e la madre (la quale tra l’altro lavora in ospedale, dove le corsie traboccano di pazienti in via di pietrificazione) tra visite ed esami; per Alpha a scuola, dove i compagni la ostracizzano e provano a farla letteralmente fuori; e poi una terza complicazione si apre quando piomba a casa loro, senza annuncio, lo zio di Alpha, Amin (Tahar Ramin), in un certo modo disconosciuto dalla famiglia, tanto che la ragazza non ne ha memoria. Amin è un eroinomane in via di disintossicazione. E, per proteggerlo, la madre di Alpha ha scelto di accoglierlo nuovamente nella loro vita.
La legge di Murphy dice che, se una cosa può andar male, lo farà, e non c’è bisogno di vaticinare per immaginare quanto peggio di così possa svilupparsi la situazione. Ok bene, e allora? Ecco. Questo allora aleggia sulla punta della lingua e non si lascia afferrare. Tra flashback ben segnalati da cambi di toni nella fotografia e un presente che vira sempre di più all’incubo per la protagonista, abbiamo tutto ben steso davanti ai nostri occhi. Ma perché raccontare questa storia, oggi, nel 2025? Chiaramente quelle corsie di corpi ammassati rimandano alla pandemia di Covid-19, al sistema sanitario al collasso, alle vite lasciate andare per esasperazione, eppure Alpha non è un film di denuncia, cioè, non di questo. E pure se fosse è descrizione, dato di fatto, non connotazione morale. Come pure è, credo, naturale che sia: possiamo raccontarcela quanto vogliamo, ma l’elaborazione collettiva di un trauma collettivo ha bisogno di decenni, mica cinque anni. Siamo ancora ben lontani da mettere davvero in fila i pensieri, su quello che è stato nel 2020.
Foto: Mandarin Compagnie/Kallouche Cinema/Frakas Productions/France 3 Cinéma
Sia chiaro, il giro vale anche per Alpha, per le vite sacrificate all’eroina, per una sindrome autoimmune che ha infettato moralmente, e culturalmente, prima ancora che fisicamente. Tornare su questioni sedimentate da diversi punti di vista è proprio quello che aiuta l’elaborazione. Ciononostante, qui c’è del passatismo. Ducournau non ha doli sulle spalle, come potrebbe? Rimane che, dal punto di vista estetico, il suo film ha il physique di quei retro-recuperi-futuristici che ci bombardano di anni Ottanta. Ducournau è classe ’83: se pure io, che ho un decennio buono di meno sulla Terra, ricordo gli spauracchi delle “siringhe nelle aiuole” e le raccomandazioni di “non camminare sui mucchi di foglie secche”, è facile fantasticare e convincersi che per lei sia stata una parte concreta della vita, mica en passant.
Anche perché, a ben contare, Alpha torna sì alle prime battute di qualcosa che è la fotocopia dell’epidemia di HIV, ma ne esautora quelli che, nella storia cronica e non ucronica, ne sono stati i protagonisti effettivi nel mondo occidentale: i membri della comunità LGBTQ, uomini gay in primis. Qui invece aghi, siringhe, il sesso non si performa e rimane vagamente inteso. La tragedia più intensa, mediata da interpretazioni da grandi lodi per i tre attori protagonisti, è quella di Amin. Alpha rispecchia in lui la sua sofferenza, è in quel pozzo nero che va a rimestare figurandosi il proprio futuro. I due sono uniti nella prima scena del film e così sarà. Ma qui, ecco, meglio smettere di addentrarsi.
Foto: Mandarin Compagnie/Kallouche Cinema/Frakas Productions/France 3 Cinéma
Quello che si può rimproverare e che io rimprovererei a Ducournau – senza, in realtà, “condannare” Alpha in alcun senso – è di aver eccessivamente spacchettato il tema. Di averlo parcellizzato, rimanendo fedele all’ispirazione e perdendo, forse, un contenuto più ampio. Anche perché Raw e Titane mostravano punti di caduta precisi per i loro eccessi: una famiglia in cui il cannibalismo si tramanda geneticamente per via femminile, una donna messa incinta da un’automobile. La storia a un certo punto si chiude; queste sono le premesse, questi sono i casini che succedono, va a finire così, ecco il destino dei personaggi. Alpha è una lettera aperta. E non sono convinta che in questo caso, narratologicamente, sia un bene.
Dirò due parole sul body horror prima di lasciarvi alla (vostra) visione. Be’, certo che questo trittico dell’eccesso e del weird è body horror. Lo è in maniera molto diversa dalla scuola a cui appartiene Coralie Fargeat (The Substance), gore, splatter, trash, pesantissimi effetti speciali trucco parrucco. Ed è pure diverso dalla mano di Cronenberg, che il corpo lo ibrida con la macchina traghettandoci nel transumanesimo. Julia Ducournau, per ora, ha dimostrato soprattutto una cosa: di essere fissata con il sangue. Il sangue è quello che rende la protagonista di Raw ciò che è. Il sangue è ciò che dà vita al bebè titanico di Alexia in Titane (a giudicare dalla fine, gli RH non combaciavano). Il sangue è il primo protagonista di Alpha.
Foto: Mandarin Compagnie/Kallouche Cinema/Frakas Productions/France 3 Cinéma
Perciò sì, certo, è body horror. Perché è il nostro corpo a essere il veicolo, è il nostro corpo a essere l’orrore. Con cui però, pare un corollario di sorta, bisogna fare i conti, amari, durissimi.
Non sarò io quella che dirà che Julia Ducournau farebbe bene a spingere l’acceleratore e basta, a non scaricare i suoi film. Less is more, e nella sua filmografia può funzionare alla grande. Limando come si lima il grasso al prosciutto nei regimi di dieta (che non condivido), il risultato cambierà sapore. Perché quello di adesso non l’ho mica tanto capito. C’erano troppe note insieme, e non riuscivo a fare chiarezza. Non ho capito perché la regista francese abbia fatto questo film, davvero non lo so. La recitazione dei suoi attori perlomeno lo giustifica – e benvenuta nel panorama, Mélissa Boros. Solo che serve qualcosa di più. Qualcosa di cui cibarsi e a cui rubare il sangue. Tanto per rimanere in tema.
