«Ti chiederà come va con l’articolo. Tu digli che è un pezzo di introspezione su una band discreta, che lotta con i propri limiti nell’arduo confronto con la celebrità. Se la farà sotto».
È divertente, e forse ci sta tutta, che anche questo pezzo cominci con una citazione. Faceva una scelta analoga nel 1975 un giovanissimo Cameron Crowe in versione cronista, aprendo il suo reportage al seguito dei Led Zeppelin con un virgolettato di Robert Plant. Un link diretto, a ben vedere. Perché quello stesso spirito – adolescenza, rock, voglia di sognare avidamente – Crowe l’avrebbe trasfuso in Quasi famosi – Almost Famous: un film sulla sua vita, il film della sua vita, uscito venticinque anni fa. Esattamente gli stessi che lo separavano da quei giorni nel frullatore, e da quell’articolo sugli Zeppelin.
La frase sul farsela sotto non viene da quell’articolo, però. E nemmeno dalla testa di Robert Plant. È una telefonata nel mezzo del film, tra il giovane William – alter ego di Crowe – e il suo mentore. Will ha solo quindici anni, ma al giornale l’hanno preso per professionista e mandato a seguire il tour di una band emergente. È divertente e ci sta tutta perché il giornale – quello del vero articolo del ’75, quello dell’articolo nel film, e di quello che state leggendo ora – è lo stesso: Rolling Stone.
Esattamente come aveva fatto con Cameron Crowe da ragazzo, nel film RS manda il giovanissimo Will (Patrick Fugit) a seguire la band immaginaria, ma perfettamente tratteggiata, degli Stillwater. Tra alti e bassi, stereotipi e sorprese, illusioni e disillusioni, per il ragazzo diventa rapidamente un romanzo di formazione, nel quale verità e contraddizioni del rock suonano a pari volume. Di pari passo, l’intenso e inespresso sentimento per la meravigliosa Penny Lane (Kate Hudson), che alla parola groupie preferisce quella di band-aid, come i cerotti, e che ama il tenebroso chitarrista Russell (Billy Crudup). Ma non è questo il tormento principale del giovane protagonista, quanto piuttosto quel rapporto complicato tra la sua anima di fan e quella di professionista, la battaglia sanguinosa tra amico e cronista in un corpo solo.
A fargli da guida e da confidente è uno dei più grandi riferimenti di sempre nella cultura rock, il leggendario Lester Bangs, incarnato da un indimenticabile Philip Seymour Hoffman: pochi giorni sul set, fiaccato da un malanno, e con date impossibili da spostare. Ne vennero fuori sullo schermo pochi sensazionali minuti, un ritmo realmente compassato, e spesso e volentieri improvvisazioni trovate lì per lì, tra cui la telefonata di cui sopra.
Riferimento nel riferimento, biografia nella biografia, ispirazione nell’ispirazione, anche Lester Bangs in carne e ossa si era fatto avanti con Rolling Stone da ragazzino, inviando spontaneamente la sua prima recensione, come ci si affida a un sogno. «Se non la pubblicate, mi dovete spiegare il perché», diceva in calce quella lettera non richiesta. Non servì spiegargli il perché, dato che fu pubblicata. E non è difficile credere come potesse diventare lo spirito guida del giovane Cameron Crowe, e a sua volta della sua trasposizione cinematografica. Un infinito salone degli specchi, per un film intimo e viscerale, più che semplicemente autobiografico.
Il regista californiano riuscì a farlo soprattutto grazie all’enorme successo di Jerry Maguire: un credito con l’industria che volle riscuotere subito, mettendo in pratica quella sua pazza idea, un film sulla sua vita. «Mi dissi: o lo faccio adesso, o non me lo fanno più fare», raccontò in seguito.
Ne sarebbe venuta fuori un’opera così sua da essere paradossalmente di tutti, intergenerazionale e trasversalmente amatissima, con una sceneggiatura finita subito in libreria senza passare dal via, e capace qualche mese dopo di vincere l’Oscar di categoria, contro pesi massimi come Billy Elliot, Erin Brockovich e Il gladiatore. Piacque subito e piacque forte, quel ritratto appassionato e appassionante di una golden age del rock iniziata poco prima, e già al tramonto. Distante solo venticinque anni da allora a pensarci bene, eppure a pelle così lontana. Per l’autore, e per chiunque guardasse, la sensazione di aver fatto appena in tempo a salire a bordo di quel bus in corsa, all’ultima corsa.
Nel vestito di tendenza da film adolescenziale, genere che alla fine degli anni Novanta consumava il suo boom, si nascondeva neanche troppo bene, e con neanche troppa voglia di nascondersi, un’opera romantica e spietata, esplosiva e triste, una serrata caccia al tesoro di aneddotica, intrigante come la fiction e credibile (quasi) come un documentario. Per chi amava il rock, il cinema e la scrittura in misura simile, Almost Famous fu il Sacro Graal, l’ideale baricentro del triangolo equilatero. Assolutamente coinvolgente, convintamente idealizzato, fedelmente favolistico, in Almost Famous davvero niente è quasi.
I quasi famosi del titolo (che in origine doveva essere Untitled, come l’album degli Zeppelin) sono i ragazzi della band fittizia, gli Stillwater, fotografati in quel momento in cui il successo sta arrivando e molto si sta perdendo. La loro autenticità soprattutto. Nel corso del film la purezza del rock viene evocata in continuazione: nel mentre frontman e chitarra solista litigano per il layout delle loro prime t-shirt, pianificano a tavolino l’immagine da dare, discutono sull’opportunità di un giornalista quindicenne al seguito, «il nemico» che ora gli fa comodo ora no.
E quel quindicenne, quello che è stato e quello che da regista sarà, fa quello che deve. E regala il primo e ultimo sguardo incantato su un mondo che si va inevitabilmente corrompendo, ci fa scorgere la plastificazione dietro l’angolo, annusare l’odore di falso d’autore già nell’aria.
E del resto Homer Simpson non aveva dubbi: «Tutti sanno che il rock ha raggiunto la sua perfezione nel 1974, è un fatto scientifico». E qui siamo proprio da quelle parti. Lo sono certamente gli Stillwater: «La serata è finita, ci auguriamo che vi siate divertiti, ci vediamo tutti quanti nel 1974», dice il manager (Noah Taylor) sventolando il suo Fedora, prima di montare a bordo del bus e dare il la (letteralmente) all’indimenticabile scena sulle note di Tiny Dancer di Elton John. Entrata nella memoria di chiunque abbia visto il film, girata con una camera mobile sul tetto del bus, per lasciare agli attori lo spazio aereo di libertà e catarsi che dovevano mettere in scena. Tre minuti di incredibile potenza evocativa. Prima del film, il pezzo non era stato così popolare, ha raccontato Cameron Crowe anni dopo, indovinate, a Rolling Stone: «Elton John vide il film e disse: “Ho sempre amato Tiny Dancer, questo significa tanto per me”. E per anni quando l’ha suonata la lanciava così: “Questa è merito del film…”».
Quella sequenza finiva (e continua a finire) in un modo altrettanto iconico. Il giovane William sfinito, seduto a fianco di Penny Lane nel bus. «Devo tornare a casa», le dice. «Sei a casa», gli dice. Almost Famous è stato probabilmente così amato, anche e forse soprattutto da quelli che nell’età della perfezione come fatto scientifico non ci sono mai stati, perché ce li ha portati di forza e di sentimento. Ed è in fondo quello che fa (e continua a fare) il rock: portarci dentro anni che non ci appartengono e farci sentire come se fossero casa, con la voglia di non tornare mai. E rifarlo ogni volta che mettiamo i nostri dischi, urliamo le nostre canzoni, sogniamo di dire a chi le ha scritte: non ti conosco, ma tu mi conosci. E non ti ho mai detto grazie.
