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‘After the Hunt’: che bello (e acuto) il dibattito visto da Guadagnino

Il regista prende i temi del (post) MeToo e ne fa un’opera intelligente e spietata sull’umanità del nostro tempo. Complice un cast eccezionale: Julia Roberts in testa. La recensione da Venezia

Foto: Amazon MGM Studios

Quando c’è un dibattito in corso, il problema è sempre uno: molto spesso sono i temi del dibattito a dettare l’agenda dell’arte, e non l’arte a usarli per produrre riflessione, scomodità, senso (si spera). Restando arte (si spera anche questo). E così, l’abbiamo visto in questi anni di dibattito infuocato, un film o un libro diventano indistinguibili da un post di Instagram. Saranno pure corretti politicamente, ma scorretti artisticamente.

After the Hunt – Dopo la caccia (fuori concorso a Venezia 82 e nelle sale dal 16 ottobre) e il suo autore Luca Guadagnino invertono baldanzosamente la rotta già un po’ invertita, va detto, da un dibattito che oggi finalmente ha imparato a usare le sfumature. E lo fanno giocando nel campionato di Serie A per budget, star coinvolte, attenzione dei media, pubblico e premi a cui si rivolge (si spera).

Il dibattito, si capisce, è quello del MeToo (e degli strascichi successivi che hanno confusamente messo insieme tutto e niente). La storia qui raccontata è del resto datata a ritroso: nelle scene finali, “cinque anni dopo”, si vede la protagonista Julia Roberts davanti ai video degli incendi di Los Angeles. Siamo dunque nella finestra iniziata un attimo dopo il MeToo, e un attimo prima del Covid, e finita (?) oggi. Del resto, è “dopo la caccia”, giusto?

It happened at Yale” è il nuovo cartello “Somewhere in northern Italy” piazzato all’inizio del film. Qui però la geografia è precisa: è un campus della Ivy League che dice molto (ora ci arrivo) del mondo già imperfetto anche prima che il dibattito ne evidenziasse (e poi stortasse) certe istanze. È il mondo del privilegio di classe e dello svantaggio del sesso; della crescita culturale (ideale) e del narcisismo sistemico.

La professoressa Alma Olsson (Roberts) – destinata alla cattedra di ordinaria del dipartimento di Filosofia, animatrice di dinner party in cui si discetta di Heidegger, sposata con uno psicanalista (Michael Stuhlbarg) pieno di spirito e pure bravo cuoco (ah, il cassoulet!) – riceve la patata bollente. La sua pupilla Maggie Price (Ayo Edebiri), la più promettente delle sue studentesse, le confessa di essere stata molestata, dopo una di quelle cene, da Hank Gibson (Andrew Garfield), professore associato, compagno di ricerca e favourite della docente più âgée. Mi fermo qui.

Anche perché tutto questo accade nella prima mezz’ora o poco più, su due ore e venti di film. La strepitosa sceneggiatura di Nora Garrett (un’esordiente!) ha tutto il tempo per ampliare, distruggere, ricomporre. Per sfumare. E, dicevo prima, per adattare i temi del dibattito all’arte, mai il contrario.

Temi che sono, in fondo, quelli in cui Guadagnino sguazza da sempre: le differenze di classe (e di soldi: chi nasce povero morirà tirchio, si sente ironizzare a un certo punto); la tensione sessuale che regola i rapporti sociali (e professionali); la solitudine come paradigma esistenziale (vedi il precedente, fiammeggiante e disperato Queer, a Venezia 2024).

“Non c’è vita vera se non nella falsa”, scrive Adorno qui citato al pari di molti altri intellettuali oggi considerati scomodi. Che è un altro punto di After the Hunt: nel mondo abituato a tutti i comfort (soprattutto psicologici), dove tutto è trauma, dove tutti sono vittime, quanto è consentito corrispondere all’etica della propria virtù (altra cit.), anche se la virtù è complessa, contraddittoria, a tratti persino meschina?

“Non c’è vita vera se non nella falsa”, e la vita falsa di Guadagnino è anche il cinema. Che diventa più vero della realtà. After the Hunt è disseminato di cinema: i titoli con il font e il jazz di Woody Allen, i poster dell’Ispettore Callaghan e del Fiore del mio segreto di Almodóvar (il thriller anni ’70 e il mélo riaggiornato sono del resto le due anime del film). Ma c’è anche una copia dei Buddenbrook, che Guadagnino sta adattando fra i suoi prossimi progetti; e non sembra tanto un’autocitazione, ma il segno che l’opera di un regista è un campo più vasto del singolo film; che tutto si parla, comunica, rifrange, rimbalza; che è arte, non un TedTalk.

E poi c’è il cast. Julia Roberts – sarà per via dei successi commerciali, dei rari trasformismi, di un approccio più naturalista che di Metodo – non viene mai messa nel gruppo delle attrici fuoriclasse, anche solo per tecnica. E invece lo è da sempre, e qui astutamente, impareggiabilmente, coraggiosamente; a 57 anni, può accettare un ruolo di cui molte colleghe appena più giovani avrebbero paura. È una Julia Roberts tra Closer (c’è tanto Mike Nichols qui, lui e la sua conoscenza carnale delle dinamiche umane) e una specie di TÁR possibilmente più sottile.

E poi Edebiri, Garfield, Stuhlbarg, e Chloë Sevigny che si vede giusto in un paio di momenti (con sottofondo di Smiths), ma precisissimi. Guadagnino sa come comporre le sue famiglie di cinema, i suoi Buddenbrook su schermo, e ne cava il meglio possibile.

I premi se ne accorgeranno? Spero di sì, dicevo. Per quel che valgono, ma certo vale il riconoscimento pubblico del fatto che qualcosa è cambiato. Nel dibattito, forse nell’agenda, di sicuro nell’arte. E del fatto che, nell’epoca in cui s’è deciso che chiunque deve essere puro, specchiato, eticamente virtuoso, restiamo invece tutti, in fondo, soli, egoisti, potenzialmente tremendi. E va benissimo così.

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