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Addio, ‘Downton Abbey’ (finalmente!)

L’ultima tazza di tè è servita: tra divorziate scandalose, maggiordomi stanchi e scandali da soap, 'Il gran finale' saluta con un inchino (e qualche sospiro). La domanda è: era proprio necessario?

Foto: Rory Mulvey/Focus Features

Le separazioni, come sappiamo bene, sono sempre un dolore dolce, anche quelle che sembrano non finire mai. Per oltre dodici anni, sei stagioni, 52 episodi, cinque speciali e due film arrivati persino nelle sale vicino a casa vostra, Downton Abbey ha guardato indietro a un’Inghilterra ormai scomparsa, che resisteva con tutte le sue forze all’irrompere della modernità del primo Novecento. Il dramma “upstairs-downstairs” di Julian Fellowes fu un successo fin dall’inizio in patria; quando poi cominciò a essere trasmesso da PBS negli Stati Uniti, nel 2011, divenne un fenomeno globale. La saga della famiglia Crawley e del suo esercito di domestici ha fatto sognare il pubblico con un ritratto del potere aristocratico nei “bei vecchi tempi”, quando i sistemi di classe rigidamente rispettati avevano persino una certa… classe.

Guerre mondiali, pandemie, disastri marittimi, rivoluzioni: neanche la morte stessa (R.I.P. Matthew Crawley e Lady Sybil), o una sorte peggiore della morte, cioè l’indifferenza crescente del pubblico, sono riuscite a spezzare i legami familiari né la lealtà della servitù. Ma nulla dura per sempre, nemmeno i franchise. Alla fine del secondo film, l’ottimisticamente intitolato Downton Abbey II – Una nuova era (2022), la Contessa Madre di Grantham interpretata da Maggie Smith lasciava questo mondo con un ultimo bon mot (“Smettetela con quel rumore, non riesco a sentirmi morire”). Essendo lei il ponte tra il vecchio e il nuovo, l’anima e la velenosa arguzia della serie, quello sembrava davvero il momento giusto per un addio definitivo. Cosa fai quando il sipario cala con una tale perfezione?

La risposta: cucini un ricco Yorkshire pudding di sipari che non smettono mai di riaprirsi. Downton Abbey – Il gran finale riporta in scena la vecchia compagnia per quella che viene annunciata come l’ultima giostra di scandali, sguardi di traverso, mascelle serrate, addii tra i singhiozzi e melodrammi da soap opera. Sir Robert Crawley (Hugh Bonneville) trascorrerà “la stagione londinese” assistendo alla nuova commedia di Noël Coward che fa furore nel West End, salvo poi andare su tutte le furie quando i guai economici imporranno la vendita della casa di città. Cora Crawley (Elizabeth McGovern), Contessa di Grantham, tornerà a guardarlo con adorazione e ad accarezzargli il capo. Lady Mary (Michelle Dockery) dovrà sopportare l’onta di diventare una paria sociale perché è – orrore! – una divorziata. Sarà anche sedotta da un americano scapestrato di nome Gus Sambrook (Alessandro Nivola), grazie al suo fascino da imbonitore old fashion, rischiando persino di essere ricattata. La sorella minore, Lady Edith (Laura Carmichael), e suo marito Bertie (Harry Haden-Patton), commenteranno ogni tanto dalla panchina.

Intanto, nei quartieri della servitù, lo storico maggiordomo Carson (Jim Carter) è pronto a ritirarsi: decenni di sopracciglia alzate davanti a mille sconvenienze possono stremare un gentiluomo. Anche la cuoca Mrs. Patmore (Lesley Nicol) si congeda; a prendere il suo posto sarà Daisy (Sophie McSheara), ex sguattera. Altri veterani come Mr. Bates (Brendan Coyle), sua moglie Anna (Joanne Froggatt), l’ex valletto Andy Parker (Michael Fox) e la governante Mrs. Hughes (Phyllis Logan) continuano a correre da una parte all’altra.

Si affacciano nuovi volti, tra cui la versione più camp di Noël Coward (Arty Froushan) mai vista al cinema: il fatto che non possa scambiarsi battute con la defunta Contessa Madre è un crimine di guerra. (Ogni inquadratura al ritratto della matriarca o alla sua sedia vuota punge due volte, ora che l’insostituibile Smith è morta nel 2024.) Tornano anche volti noti, come lo zio Harold imbarazzato di Paul Giamatti e l’affascinante attore Guy Dexter impersonato da Dominic West, che ha mantenuto la promessa di far capitolare il vecchio e astuto servitore Thomas Barrow (Robert James-Collier). Non manca un grande set al galoppo di una corsa di cavalli, un ricevimento sfarzoso e altre occasioni di lusso escapista che ricordano i film dei “telefoni bianchi” hollywoodiani degli anni Trenta. Qui il progresso si misura dal fatto che la servitù, per una volta, può congedarsi dai padroni nei giardini esterni. E quando è il momento di spegnere le luci, i finali si moltiplicano come nella trilogia del Signore degli Anelli.

Michelle Dockery in ‘Downton Abbey – Il gran finale’. Foto: Rory Mulvey/Focus Features

Nonostante il miscuglio di ansie sulla successione e di gente che corre da tutte le parti, in Downton Abbey – Il gran finale accade in realtà pochissimo, di certo non abbastanza da giustificare un terzo film. A malapena sembra un episodio televisivo “with benefits”. Oggi tanti film validi si vedono negare l’uscita in sala, eppure paradossalmente questa passerella d’addio avrebbe reso molto meglio debuttando direttamente in streaming. I piaceri (guilty o meno, fate voi) di guardare persone in abiti elaborati piangere, urlare o gridare “Huzzah!” si trovano ormai nell’altra serie in costume di Julian Fellowes, The Gilded Age, che potrebbe tranquillamente chiamarsi Downton on 3rd Ave.

Guardando questa lunghissima “exit interview”, capisci subito che non è altro che una scusa per passare due ore in più con quei personaggi, e nulla di più. Per certi fan, tanto basta. Altri spettatori sentiranno invece una fitta di nostalgia per quando, nei primi anni 2010, le stagioni iniziali regalavano un succoso ritratto della vecchia Inghilterra, in un tempo che ora appare più semplice. Oggi Downton ti vende solo la nostalgia della nostalgia. “A volte penso che il passato sia un luogo più confortevole del futuro”, sospira un personaggio, e ti chiedi perché ci sia voluto così tanto perché il franchise dicesse ad alta voce ciò che era sempre stato implicito. Quei flashback esotici di confini di classe inflessibili non sembrano più così pittoreschi nella nostra attuale era dell’“eat the rich”, ma solo antiquati. Andatevene subito, e con grazia, per l’amor di Dio.

Da Rolling Stone US

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