Adriana la chanteuse, Adriana la sciantosa. La zia mi portò a vederla a teatro, ai Filodrammatici con la scala bianca tipo Guggenheim che va giù a spirale. Era la mala, o forse era Brecht. Niente era più Milano di quella roba lì, di quella sciura lì. Primadonna e soprattutto donna prima pragmatica, lirica e libera, lucente e spiccia.
Tutte sono state muse, soprattutto nei coccodrilli. Qualcuna lo è stata per davvero. Le muse vere si nascondono, si confondono. Stanno ovunque, ispirano il poeta e il musico, ma le devi stanare. Adriana Asti m’è sempre parsa una di queste. Non era il primo nome che veniva in mente – lo si è detto, di recente, di fronte a un’altra morte per alcuni colpevolmente laterale: quella di Lea Massari – ma era sempre lì. Col suo fare sbrigativo ma mai sgarbato. Come a dire: sì, sono la brava fra le brave, ma non ho tempo da perdere, ho molto altro da fare. Di sicuro sbaglierò, in fondo che ne so di lei, ma m’è sempre sembrata una col brodo sul fuoco. O il cane da portare a passeggio. O un’amica da ricevere per il tè, e ciacolare insieme della Milano che non c’è più.
Tra un brodo e un tè, Pasolini, Visconti, Bertolucci, e tutti gli altri. Si può essere nei primissimi (o quasi) film degli autori che avrebbero cambiato la cultura e il cinema negli stessi anni (o quasi) e fare come se niente fosse? Scansarsi, quasi. Accattone e Prima della rivoluzione, tiè. Ma come se fosse passata di corsa, lasciando dietro il meglio di sé e correndo verso qualcos’altro, qualcun altro. Prima e dopo, particine però enormi qua e là, con l’altro maestro. Una lavandaia nella storia del bellissimo Rocco che dal Sud arriva a Milano; un’altra sciantosa, stavolta alla corte kitsch di Ludwig l’eccentrico. Sempre Visconti, che l’aveva buttata in scena fra i primi.
Quelli della mia generazione forse l’hanno scoperta con La meglio gioventù, dov’era la (milanesissima, ma costretta alla Roma di piombo) mamma dei fratelli Nicola (Luigi Lo Cascio) e Matteo (Alessio Boni). Marco Tullio Giordana (e gli sceneggiatori Rulli-Petraglia) le aveva dato come nome Adriana, perché era lei. O forse, i coetanei miei, l’hanno incrociata la prima volta grazie a Favola, dov’era la zia del principe amato da Ambra. Per dire che, coi suoi modi spicci, passava da una cosa all’altra senza vergogna.
Era svergognata e furba, con quegli occhi che stregarono via via De Sica, Bolognini, Brusati, Buñuel, ovviamente il marito Giorgio Ferrara, con cui fece tante cose e soprattutto una Tosca in cui, a ciacolare, stava con l’altra milanesissima, spiccia, svergognata, sua pari in tutto o quasi: Franca Valeri. L’Adriana è morta il giorno in cui era nata la Franca, morta anche lei d’estate.
A me piace ricordare Adriana Asti nella Famiglia Ricordi (pardon), storia anch’essa molto milanese che fa tornare alla mente quelle sere a teatro, dopo essere passati da Ricordi in Galleria a sentire gli ultimi dischi arrivati, nella Milano che non c’è più, dove ancora non erano arrivati i listening bar.









