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A lezione di horror

Lucio Besana scrive storie dell’orrore per «parlare dell'indicibile e dare un nome ai mostri». Gli stessi che mette nei suoi racconti e nei film a cui ha collaborato, come ‘The Nest’ e ‘A Classic Horror Story’. Una conversazione ai limiti: in tutti i sensi

Foto: Netflix

Ho conosciuto Lucio Besana frequentando un suo workshop online di sceneggiatura per “Cinema fantastico e dell’orrore” alla Scuola Holden. Tutt’ora non mi spiego perché mi fossi iscritta: avrò visto cinque horror in vita mia, da adolescente con i miei amici, per preparare il terreno a qualche improbabile seduta spiritica durante le vacanze estive. Fin dalla prima lezione, di Lucio mi ha colpito il profondo riconoscersi in questo genere cinematografico, tanto che il suo approccio all’insegnamento era privo di narcisismo. Ho frequentato tanti workshop, e la prevalenza è quella dell’autocompiacimento – io per prima, nella sua posizione, mi sarei subito sentita un predicatore sul pulpito – e non lo trovo neanche sbagliato. Ma lui è stato diverso: mi è sembrato che non cercasse il proprio riflesso nei nostri occhi innamorati ma semplicemente aprisse la porta della sua necessità, del suo “gesto” come dice lui, con generosità e fermezza. Questa cosa mi ha molto affascinato e incuriosito.

Perciò, finito il corso, gli ho proposto un’intervista e lui subito mi ha risposto: “Volentieri, appena torno in Italia” (Lucio vive a Strasburgo, e torna periodicamente a Milano per insegnare). “Ti va se ci vediamo al villaggio Crespi d’Adda?”. E io subito a documentarmi: cos’è il villaggio Crespi d’Adda? Salta fuori che è un villaggio industriale rimasto attivo per diversi decenni tra Ottocento e Novecento, nato come una piccola utopia capitalista sulle rive dell’Adda. Può risultare, a seconda di chi lo visita, inquietante o affascinante, con la sua pianta regolare, la sua gigantesca fabbrica tessile e le sue file di case identiche. Così, eccoci qui.

Lucio, la prima cosa che ci hai fatto vedere in classe è un cortometraggio ambientato in un luogo molto simile a questo, benché quello del film fosse più moderno: Foxes di Lorcan Finnegan. Devo pensare che sia una tua mania?
Crespi d’Adda è sicuramente un posto che sento mio. Ci sono venuto la prima volta alle elementari e sono stato subito colpito dall’aspetto utopico di questo paese. Il Villaggio Crespi è stato costruito da zero, non è una realtà nata organicamente, stratificandosi nel tempo. È stato creato come il meccanismo di un orologio, con delle orbite, delle traiettorie definite: al centro la fabbrica, attorno gli alloggi degli operai, poi le villette dei piccoli dirigenti e poi quelle più grandi dei quadri di livello superiore, e così via. E in alto, la villa della famiglia Crespi, che domina su tutto. Si sente tutto il capitalismo paternalistico: la sensazione che qualcuno si prenda cura di te. Ma poi c’è il risvolto della medaglia, e lo scopri quando vedi il cimitero. Ti va se ci andiamo?

È la prima volta che ci incontriamo di persona, io e quest’uomo, scrittore e sceneggiatore di film horror. È buio, non c’è in giro nessuno e lui mi invita al cimitero, in questo villaggio sinistro. Accetto con nonchalance ma è strano, eh.

Andiamo! Volentieri! Ma prima di tutto, dimmi bene che lavoro fai.
Sono scrittore, sceneggiatore e traduttore, lavoro coi generi weird e horror.

Un ritratto di Lucio Besana

Come sei arrivato a scrivere per il cinema?
Dopo un po’ di gavetta ho vinto il Premio Solinas come miglior storia per il cinema 2012 con il mio Voci di mezzanotte (ex aequo con Cosimo Gomez per Buoni e cattivi, nda) e a quel punto sono stato contattato da diversi registi per sviluppare i loro progetti. Tra questi, c’era Roberto De Feo.

Com’è andata la collaborazione tra voi due?
Nel 2013 De Feo mi chiamò e mi disse: “Ho dei soggetti che vorrei sviluppare in una sceneggiatura. Hai voglia di darmi una mano?”. All’epoca il mio immaginario era compatibile con ciò che cercava di fare, e la collaborazione fu produttiva. Il mio lavoro è stato quello di sviluppare e far funzionare per lo schermo le storie che mi proponeva. Ne ho sviluppate molte, e due sono state realizzate: The Nest nel 2019 e A Classic Horror Story nel 2021.

Avete in programma altri progetti?
Dopo la pubblicazione del mio primo libro, Storie della serie cremisi (Edizioni Hypnos), De Feo mi ha chiesto di adattare uno dei nostri soggetti in un romanzo. L’ho appena finito e uscirà a breve per una grossa casa editrice.

Come esordio non mi sembra male. Al box office The Nest è stato in assoluto il miglior film d’esordio italiano di genere, e De Feo ha ottenuto una candidatura ai Nastri d’argento come miglior regista emergente. Con A Classic Horror Story, invece, De Feo e Strippoli hanno vinto il premio alla regia al 67° Festival di Taormina e il film è stato candidato ai David di Donatello 2022 per i migliori effetti visivi vfx.

In che stato di salute è il cinema horror?
Sta benissimo: sia nella scena mainstream, sia in quella indipendente, le idee ci sono. Sto pensando a registi come Ari Aster e Robert Eggers, a film come It Follows. Negli ultimi anni, ho visto horror che non speravo più di trovare come qualità, come rispetto per il genere e per la scrittura del genere. E poi se si va sul cinema sommerso, più scavo in questo serbatoio, più trovo delle gemme, dei film incredibili: Skinamarink, Censor, e potrei continuare… Per me il genere horror gode di ottima salute, almeno come immaginario. Certo, oggi andare al cinema non è come una volta: il film era un evento, ti organizzavi in anticipo, ti tenevi la serata libera, uscivi di casa, spendevi dei soldi investendo sul titolo che ti attirava di più. Oggi il cinema è quello che fai tutte le sere quando torni a casa, con lo streaming hai una scelta sconfinata. E dirò una cosa brutta, ma un film non è più qualcosa di speciale, o non è più percepito come tale. L’offerta è talmente vasta che il valore del singolo film si è abbassato drasticamente. Pensa a Tenet di Nolan: immaginati dieci anni fa che effetto avrebbe fatto un film come quello, e comparalo con l’effetto che ha avuto due anni fa all’uscita. Ma l’horror è sempre stato un underdog, è abituato a sopravvivere. Continuerà a cavarsela.

E il cinema fantastico? Mi sembra che ci sia un’esplosione incessante. Penso ai titoli Marvel (quanti sono, 40 film?), a Mercoledì, The Umbrella Academy
Ricordo che, quando da piccolo andavo in videoteca a rifornirmi, la parte del cinema fantastico era costituita da due cassette in croce. Tutto il resto era dramma, azione, guerra, horror, love story, eccetera. Non ho studiato il fenomeno con precisione, ma ho avuto l’impressione che l’uscita nel 2001 del Signore degli anelli e di Harry Potter abbia rappresentato l’inizio di un lunghissimo trend positivo di produzioni fantastiche.

Sono usciti nello stesso anno? Li ho visti entrambi, eppure non avevo mai fatto questo collegamento… Mi ricorda l’autore e amico Amabile Stifano: dice che il ’68, quando uscirono 2001: Odissea nello Spazio, La notte dei morti viventi e Il pianeta delle scimmie, sia l’anno in cui il cinema sognò il futuro. Che definizione si può dare allora di questo 2001, anno in cui inizia un’era fantasy così prolifica?
Curioso. I tre film che citi sono degli originali: colpi di genio, capostipiti di mutazione da cui sono discesi interi generi e franchise, cose mai viste prima. Erano storie nuove. Nessuno dei film fantastici usciti nel 2001 rientra davvero in questa definizione. Uno era tratto da un romanzo che, per quanto magnifico, era uscito quasi cinquant’anni prima, l’altro da una saga letteraria contemporanea che, per quanto sia adorabile da leggere, è derivativa di altre storie e immaginari. E tu citi i Marvel, che riprendono materiale risalente ai primi anni Sessanta. Forse il 2001 è l’anno in cui il cinema si è accorto che guardare al futuro non garantiva molte sicurezze, e ha preferito voltargli le spalle. Non so se da quella tendenza ne sia mai veramente uscito.

Mentre diciamo questo arriviamo al cimitero.

Hai ragione, Lucio: è un posto strano.
A terra ci sono le tombe degli operai e delle loro famiglie, tutte uguali, alte una quarantina di centimetri, tutte disposte alla stessa distanza l’una dall’altra. E qui davanti, c’è questa specie di enorme tempio tailandese dove sono sepolti i familiari Crespi: quanto sarà alto? 30, 40 metri? Qui vedi tutta l’essenza della gerarchia, del senso di dominio e di differenza sociale sui cui era costruito il villaggio. Fa un certo effetto.

Penso che, per la generazione dei miei nonni, fare parte di un sistema come questo, così gerarchico, non fosse un abominio. Anzi, c’era una certa dignità nel lavorare per un “padrone”. Parlo dell’età industriale del boom economico, eh, non del medioevo.
Certo. Ma questo fa ancora più impressione: pensare che si possano interiorizzare i modelli che ci assoggettano. Non è una cosa così distante neanche oggi, se ci pensi. E sollevi una questione che tocca l’horror: se dovessi scrivere di totalitarismo e fascismo, invece di affrettarmi a dipingerli come degli universi popolati da cattivi, mi chiederei perché ne siamo attratti. Il diavolo vince perché ti conosce, quindi qual è la parte di noi che questi sistemi conoscono e tentano?

Come dice Manuel Agnelli in Padania, “ha ancora senso battersi contro un demone / quando la dittatura è dentro di te?”. Adesso ti faccio la domanda che mi interessa di più, il mio interrogativo più intimo, il motivo per il quale sono qui. È una questione sociologica, più che cinematografica: com’è cambiata – se è cambiata – la rappresentazione della paura nel cinema?
Ti rispondo con un esempio. Di recente ho visto un film canadese, Skinamarink di Kyle Edward Ball, un regista indipendente che ha girato un classico con due lire. Tutto il film è girato con un’attenzione estetica che ritrovo spesso su internet, quella dei liminal spaces. Questi sono, essenzialmente, spazi vuoti, ambienti in cui la presenza umana è stata eliminata. Tutto Skinamarink è girato con quell’estetica: quindi si focalizza su angoli vuoti, corridoi bui, porte chiuse. È un film che mi ha fatto dormire con le luci accese, non mi era mai successo. Non mi sorprende che su TikTok sia diventato un culto. Dopo averlo visto ho sentito che, in qualche modo, quello che è stato fatto prima è ormai invecchiato. Per me è stato un film spartiacque. Per farti un esempio di che sensazione possa darti uno spazio liminale: un’aula di scuola, di notte. Sai che di giorno verrà occupata, sai che la stai osservando da un punto di vista quasi schrödingeriano: la stanza non esiste di notte perché quello che la giustifica di giorno – le lezioni scolastiche, la presenza di esseri umani, la tua presenza – in questo momento non c’è. Mark Fisher, un grande teorico del weird, lo chiama “fallimento di presenza”. Tu senti che dovrebbe esserci qualcuno che invece non c’è, e questo ti provoca un sentimento di angoscia, disorientamento e nostalgia. Approfondendo il fenomeno, mi sono accorto che, senza accorgermene, è questo di cui ho parlato nei racconti e nei romanzi che ho scritto negli ultimi sette anni. Sono un’estetica e un immaginario che toccano nervi scoperti. Per tornare alla tua domanda, se ci pensi, il sentimento di liminalità era sospeso nell’aria già da un po’, ma lo abbiamo vissuto tutti con la pandemia. Il mondo si è svuotato: durante la tua ora d’aria passavi di fianco ai bar che frequentavi prima del lockdown e che in quel momento erano completamente vuoti, dopo un po’ cominciavano ad accumulare polvere. E poi c’erano le nostre case: dopo la messa in quarantena, la nostra casa non era più lo stesso posto. Non era il luogo in cui tornare, ma era diventato il luogo in cui stare, sempre, tutto il tempo, in attesa. Noi abbiamo paura di cose vicine, pertinenti. Ai tempi della Guerra fredda, per quello che ne sapevamo delle radiazioni, facevano paura i film con gli insetti giganti. Penso per esempio a Them! (in italiano tradotto con il titolo Assalto alla Terra, ndr), con le formiche mutate dalla bomba atomica. Oggi quei film ci fanno ridere, le nostre vulnerabilità sono diverse. Oggi forse, più dei maniaci mascherati e dei morti viventi, mi fa paura la possibilità che da luoghi come questi, da questi spazi imprigionati dall’assenza, non si riesca più ad uscire. Mi fanno paura la perdita di identità e di un ruolo nel mondo in cui viviamo, la perdita del controllo che abbiamo sulla realtà e su noi stessi. E sono ragionevolmente sicuro di non essere l’unico.

Ecco, mi viene in mente il pezzo dei Casino Royale Oltre, un racconto tra il sogno e l’allucinazione, quando dice “serve un altro posto / forse basta un altro giorno ancora / e un nome nuovo per le cose che conosco”. E penso anche che tu mi abbia portato in un villaggio “liminale”: è meraviglioso e spaventoso allo stesso tempo. È questo il legame tra Villaggio Crespi e Foxes, ho capito: la liminalità.
Be’, l’hai capito prima di me. L’ho realizzato per la prima volta adesso. In effetti fa paura, ma si sente una strana nostalgia, qui.

Perché scrivi horror, Lucio?
Perché ci dà occasione di parlare dell’indicibile, di quello che non entra nelle conversazioni condivise. Dà un nome ai mostri. Ci sono tanti pattern di comportamento, tanti piccoli abusi, tante cose che ci fanno male, che sono state normalizzate, appiattite. La mia generazione è cresciuta con una frase fissa nelle orecchie: “Non sei abbastanza, non fai abbastanza, devi fare di più”. È un abuso morale, che mira a mortificare la persona in modo da renderla controllabile. Eppure, per tanto tempo abbiamo considerato normale questo modo di comportarsi, anche perché era quasi impossibile separarlo dalla normalità, e non avevamo un nome per identificarlo. L’horror ha questa capacità, maleducata se vuoi, di prendere dei fenomeni che non puoi quantificare, a cui non puoi dare un nome, e sintetizzarli in un simbolo con cui puoi dialogare, con cui puoi fare un esame di coscienza. Che è poi la chiave per riconoscere questi fenomeni e batterli. E sono molto spesso cose di cui nessuno vuole parlare. Per esempio, lo stato post-traumatico di una vittima, di un sopravvissuto a un attentato, a un abuso infantile, eccetera. O ancora, il pattern di comportamenti tossici messi in luce dal MeToo, comportamenti di cui non ci rendiamo conto se non ci vengono fatti notare. Ci sono esperienze che sono lontanissime dal vissuto comune, o che permeano il vissuto comune senza che ce ne accorgiamo, ma con l’horror puoi portarli alla luce con immagini semplici e immediate, da fiaba. Puoi condurre il lettore in quell’angolo, in quella zona che per la maggior parte di noi è tabù. È questa la sua potenza, la sua necessità. È questo il motivo per cui penso che spaventare e perturbare ha un senso, ha un’importanza.

Grazie Lucio per questo tuo racconto. Per questa tua vita così dentro alla “tua” cosa. Per questa libertà che non tutti sono in grado di prendersi, di lasciarsi ossessionare, senza perdere la bussola, di modo da poterci poi restituire la mappa di quel mondo. Come fanno gli artisti.

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