Confesso sin da ora che non sono una bigelowiana, per quanto sia impossibile non stare dalla parte della prima donna in assoluto a vincere l’Oscar per la miglior regia (The Hurt Locker, 2010, battendo pure l’ex James Cameron, sbam), e per di più una che gira COSÌ. Ma c’è qualcosa in quel perfezionismo – e qui semplifico – che mi pare più affascinato dalla procedura che dal dolore, un rigore di analisi che sembra sempre un po’ emotivamente distaccato. Ecco, credo sia quello che irrimediabilmente mi allontana. Eppure so che è proprio lì, in quella freddezza apparente, che sta l’unicità di Kathryn Bigelow: nel filmare la violenza, la paura e il trauma collettivo con la precisione entomologica di chi non cerca empatia, ma verità.
Ok, ma still not my cup of tea.
Però.
I primi quaranta minuti di A House of Dynamite (dal 24 ottobre su Netflix) sono costruiti come un manuale dell’ansia, un bignami della suspense contemporanea. Ti risucchiano dentro un incubo in diretta, con la macchina da presa di Barry Ackroyd che si muove come un operatore embedded in una crisi reale.
Siamo in Alaska, nella sala di controllo del 49° Battaglione di Difesa Missilistica. Suona un allarme: un oggetto non identificato è stato lanciato ed è in rotta verso la costa occidentale degli Stati Uniti. Nessuno sa da dove provenga, nessuno è certo che sia reale o un errore di sistema. 20 minutes to save the world, tick tock, tick tock, tick tock (semicit.). Seguiamo la catena di comando – il Presidente, il Pentagono, gli scienziati, i consiglieri militari, i tecnici – fino alla Situation Room della Casa Bianca: un bunker sotterraneo che sembra il ventre del potere americano, dove l’ufficiale di servizio (Rebecca Ferguson) lotta contro il tempo. Tutto è claustrofobico, illuminato da luci al neon, inquadrato come un reportage dal fronte. Solo che il fronte, stavolta, è qui.
Quei primi quaranta minuti sono un thriller del “quasi”, della possibilità: what if? E se succedesse davvero? La tensione non nasce tanto dal missile, quanto dal modo in cui il potere reagisce (o non reagisce) alla propria incertezza. E Bigelow, da sempre cronista schietta e impavida dell’ambiguità politica americana, osa smascherare gli errori della negligenza governativa in un momento in cui persone totalmente inadeguate (e, peggio, pericolose e insensate) gestiscono il Paese. In un’altra epoca, lo stesso film sarebbe stato letto come un esercizio di tensione: un thriller procedurale anni ’90 impeccabile ma astratto. Con Trump sullo sfondo, invece, assomiglia più a una possibile cronaca che a una distopia (pardon). È come se dicesse: il problema non è quello che succede, ma chi è al comando.

Idris Elba in ‘A House of Dynamite’ di Kathryn Bigelow. Foto: Netflix
Bigelow ha sempre avuto un talento feroce per il tempo reale, per quella tensione che non esplode mai, che vive nei secondi sospesi prima della catastrofe. Qui la comprime fino al parossismo: il film si svolge in meno di venti minuti, ma ne dura un centinaio. Lo spettatore diventa il testimone impotente di un meccanismo che implode. E se nella prima parte c’è l’urgenza, la vertigine, nei due capitoli successivi (gli stessi 20 minuti scarsi visti dall’ufficio del comando militare e da Mr. President) l’elettricità si disperde: il ritmo si fa più verboso, la paura meno viscerale. Ci si concentra su chi potrebbe aver lanciato l’arma nucleare – Corea del Nord? Russia? un errore americano? – e su come rispondere. Dopo aver mostrato l’apocalisse possibile, Bigelow si fissa sulla catena di comando che la rende inevitabile. E, nel sezionare il panico, finisce per rimanere intrappolata nella gabbia del suo stesso controllo.

Anthony Ramos in ‘A House of Dynamite’ di Kathryn Bigelow. Foto: Netflix
È la stessa regista che mostrava il cedimento dell’analista della CIA interpretata da Jessica Chastain dopo aver trovato Bin Laden in Zero Dark Thirty; e che chiudeva su Jeremy Renner, il soldato di The Hurt Locker, che torna al fronte come un tossico in cerca di adrenalina. Qui c’è il comandante del 49° Battaglione (Anthony Ramos, da In the Heights) che esce dalla base e cade in ginocchio. In questo senso A House of Dynamite completa idealmente una trilogia sul crollo del sogno americano in tempo, questo tempo, di guerra. Solo che stavolta la guerra non è “là fuori”, ma dentro.
A differenza di A prova di errore di Sidney Lumet (1964), dove il presidente di Henry Fonda era il ritratto della calma, qui quello di Idris Elba è un uomo che non sa che pesci pigliare. E per giunta ormai siamo davvero in una situazione da Dottor Stranamore, ma senza la commedia: la vera dynamite è seduta alla scrivania nello Studio Ovale, twitta da un telefono e, soprattutto, ha in mano QUEL pulsante.














