‘28 anni dopo’, ma sembra oggi. Danny Boyle fa centro con l’horror anti Brexit | Rolling Stone Italia
The walking infected

‘28 anni dopo’, ma sembra oggi. Danny Boyle fa centro con l’horror anti Brexit

Il ritorno del regista inglese (e dello sceneggiatore Alex Garland) a ‘28 giorni dopo’ è un’amara e sorprendente riflessione sociopolitica sul Regno Unito di oggi. «Con il cinema dell’orrore si può raccontare tutto», ci ha detto. Cronaca dalla première londinese

‘28 anni dopo’, ma sembra oggi. Danny Boyle fa centro con l’horror anti Brexit

Aaron Taylor-Johnson e Alfie Williams in ‘28 anni dopo’ di Danny Boyle

Foto: Sony Pictures

Potete anche non crederci, ma a Londra fanno 30 gradi e il sole splende nel cielo nel pomeriggio che segna la strana anteprima mondiale di 28 anni dopo. Strana perché in realtà i primi spettacoli del film sono già andati nelle sale italiane, dove è uscito il 18 giugno, mentre nel Regno Unito hanno dovuto aspettare un giorno di più. Ma si sa, gli inglesi hanno sempre ragione, e forse è proprio il succo di questo terzo capitolo della saga degli infetti che nel 2002 vide un giovane Cillian Murphy vagare per una Londra deserta, una scena rimasta nell’immaginario comune e che molti hanno ricordato nei terribili mesi del lockdown del Covid. Appena un mese e mezzo prima, oltretutto, il Regno Unito si era ufficialmente staccato dalla Comunità Europea, ricordi di una notte quasi dei cristalli davanti la House of Parliament che a ripensarci oggi mettono ancora i brividi. Probabilmente proprio perché l’oggi è altrettanto tremendo, e il fatto che la colonna sonora, magnifica, di 28 anni dopo, sia stata composta dai Young Fathers, da anni sostenitori del movimento BDS, ovvero Boycott Divestment and Sanctions nei confronti dello Stato di Israele, non è proprio del tutto un caso.

28 Anni Dopo - Dal 18 giugno al cinema - Trailer Ufficiale

Il tempo è passato, il virus, che nel secondo film è riuscito a raggiungere il continente e addirittura Parigi, è stato contenuto e respinto dall’Europa unita e ricacciato al di là della Manica, dove invece dilaga senza freni. Il Regno Unito è quindi diventato un’enorme area in quarantena, pattugliata costantemente dalle navi da guerra dell’UE. Nessuno ne può uscire, e ormai di sani ne sono rimasti in pochi. Come i valorosi di un lembo di terra diviso dalla Scozia da una strada percorribile solo con la bassa marea. È quella che percorrono Jamie, il padre, e Spike, il figlio che deve ricevere il battesimo del primo infetto abbattuto. Ma l’impatto con una terra di cui non si vede il confine cambierà profondamente questo giovane uomo di dodici anni. «La straordinaria peculiarità del genere horror è proprio questa», mi ha detto Danny Boyle sul red carpet della première. «Lo stesso Romero ne sfruttava le potenzialità. Magari questo non è un film prettamente politico, ma attraverso le maglie del racconto è possibile individuare la Brexit, il Covid, le cose orribili che stanno accadendo nel mondo in questo periodo. L’horror ha una flessibilità che nessun altro genere ha».

Alex Garland, che è tornato a lavorare con Danny Boyle dopo quasi vent’anni (e che non ha partecipato alle interviste sul red carpet, ha firmato qualche autografo e si è fiondato in sala: a occhio mi sa che ne passeranno altri venti, ma posso sempre sbagliarmi), ha deciso quindi di eliminare o quasi quanto successo 28 settimane dopo (anche se il film dello spagnolo Juan Carlos Fresnadillo merita una prova d’appello, opera di spessore che ha sofferto oltremodo il confronto con il capostipite della saga) per spingere su questioni che al regista di Civil War e Warfare – Tempo di guerra (lo vedremo dal 21 agosto nelle sale italiane) stanno molto a cuore. La figura femminile è centrale, così come la scienza, la cultura e le tradizioni. È un agile trattato di antropologia, 28 anni dopo, e di analisi della società contemporanea in futuro distopico ma neanche troppo.

Da sinistra: Aaron Taylor-Johnson, Alfie Williams, Jodie Comer, Ralph Fiennes, Chi Lewis-Parry e Danny Boyle alla première londinese del film. Foto: Tim P. Whitby/Getty Images courtesy of Sony Pictures

E se della scrittura di Garland non si può dubitare, fa piacere vedere Boyle tornato a uno standard decisamente migliore rispetto agli ultimi dieci anni, dopo la delusione cocente del seguito di Trainspotting, l’agghiacciante serie sui Sex Pistols e l’irrisolto Yesterday. Qui invece si sbizzarrisce, «è un film di Danny», ha commentato il direttore della fotografia Anthony Dod Mantle, inglese di Oxford che ha lavorato con Thomas Vinterberg e Lars von Trier e che era dietro la camera anche per 28 giorni dopo. «All’epoca usammo luci e colori diversi, qui Danny voleva fare altre cose. Abbiamo usato molte lenti anamorfiche, anche applicate a smartphone, e con focali anche non convenzionali a seconda del tipo d’inquadratura, e abbiamo lavorato tanto con la luce naturale, anche nelle scene d’interno». Una varietà e una ricerca dell’immagine che dà al film un carattere deciso.

Il resto lo fa la storia, con le sue notevoli implicazioni etiche e morali, perché va sempre ricordato che qui non abbiamo a che fare con dei morti che camminano, ma con dei vivi che hanno contratto un virus. Sono delle persone malate, quindi, ma piuttosto che cercare una cura, meglio ammazzarli. C’è un chiaro ribaltamento del punto di vista e, per chi conosce la società britannica, anche una potente denuncia del progressivo depauperamento del sistema sanitario pubblico e del suo welfare in generale. Gli assassini, a dirla tutta, siamo noi, i sani.

Jodie Comer con Danny Boyle sul set del film. Foto: Sony Pictures

E poi i personaggi. Aaron Taylor-Johnson interpreta Jamie, l’uomo tutto d’un pezzo, il maschio alpha con le sue certezze e le sue necessità. Spike è il suo erede, il ragazzo che quando diventerà uomo sarà il punto di riferimento della piccola società in cui vivono. In mezzo la madre, Isla, malata e adorata da Spike, interpretata da una notevole Jodie Comer. «L’avere avuto il lusso di poterci prendere due settimane per provare insieme a Danny e Alex, oltretutto su un copione così ben scritto», mi ha detto la protagonista di Killing Eve, «mi ha dato la possibilità di potere fare loro le giuste domande sulla direzione che doveva prendere il personaggio e sul percorso che avrebbe dovuto intraprendere in questo viaggio pericoloso e fantastico. Poter lavorare con un regista fantastico come Danny ha fatto il resto».

E fantastico è anche il giovane vero protagonista del film, Alfie Williams, praticamente esordiente, che si carica sulle spalle il film senza timori reverenziali. «Lavorare con Danny, che è un genio, è un sogno, ma soprattutto, come Aaron e Jodie, è una bella persona, e questa la cosa più importante». Le idee chiare sin da giovane, il ragazzo. Così come le ha il suo mentore, che con Boyle ha pianificato una trilogia, «il secondo film lo abbiamo già girato e vedrà anche il ritorno del nostro beniamino Cillian Murphy, sarà un ritorno in scena sorprendente». In che modo lo scopriremo il 16 gennaio 2026, per la regia di Nia DaCosta. Si intitolerà The Bone Temple e quando vedrete questo film capirete perché.

Ma se questa doppietta dovesse andare bene, aspettiamoci altre storie dalla terra degli infetti, perché Danny Boyle sa cosa vuol dire avere a disposizione una Proprietà Intellettuale con praticamente infinite possibilità. «Certamente non possiamo ignorare il mercato, ma sappiamo anche che avere a disposizione un franchise di questo tipo ci offre la possibilità di fare cose diverse per poterlo far funzionare al meglio. Quindi significa nuove storie, nuovi scenari, nuovi attori. È la ragione per cui il primo film ha avuto un così forte impatto sull’immaginario collettivo, perché era stato realizzato in modo non convenzionale. E sicuramente questa è la linea che vogliamo seguire in futuro». Insomma, i walking infected sono tra noi, e ci resteranno per un bel po’.