E se fosse proprio la pandemia a salvare il cinema italiano? | Rolling Stone Italia
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E se fosse proprio la pandemia a salvare il cinema italiano?

Andrà tutto bene per il settore in Italia dopo il lockdown? Ne abbiamo parlato con registi, produttori, case di distribuzione e associazioni

E se fosse proprio la pandemia a salvare il cinema italiano?

Un'immagine da 'Nuovo Cinema Paradiso' di Giuseppe Tornatore

«L’Italia dovrà trovare una nuova narrativa su se stessa, dobbiamo pretendere ciò che fu il neorealismo per il dopoguerra. Il talento e la verità ci sollevarono dalla devastazione e dall’umiliazione». Francesco Rutelli, presidente di Anica – l’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Multimediali, da due mesi in prima linea per salvare il cinema italiano dallo tsunami Covid –, inquadra in poche parole la sfida del futuro per il cinema. Italiano e non solo, se è vero che Disney ha licenziato 100.000 lavoratori – gran parte, è vero, mandati a casa dai parchi a tema, chiusi; ma molti altri anche dalle produzioni, bloccate – e che la grande Germania, già in fase 3 e che ha messo il turbo per raggiungere il post-coronavirus, non ha neanche messo a punto una road map per il ritorno in sala. Tacciamo della Cina, unica ad aver sperimentato una riapertura dei cinema, incassando un fallimento cocente con una media di poco più di una persona per sala in quelle brevi programmazioni. La pandemia ha terremotato tutto e tutti e il grande schermo, che nel nostro Paese era in un momento di grande salute: è il solito vizio dei nostri cinematografari, che da sempre parlano di crisi salvo poi rimpiangere i bei tempi quand’essa arriva davvero.



Eppure, ora che il settore è in pericolo di vita, le prospettive future appaiono come una sfida. Alla paura che nulla sarà come prima si affianca la speranza. La stessa: che nulla sarà come prima, appunto. «La sala – continua l’ex Ministro della Cultura e sindaco di Roma – deve essere “multi”. Multifunzionale, sul modello per esempio dell’Anteo di Lionello Cerri (il più noto multisala milanese, ndr). Dobbiamo immaginare un luogo di assembramento, quando si potrà, sociale, politico, creativo, di intrattenimento, dove la fisicità incontra il digitale. Un luogo in cui vedere la Serie A o il concerto di Ligabue a Campovolo in diretta, a cui non hai potuto andare, la prima della Scala come l’ultimo film d’autore». L’intuizione, in fondo, pesca nel passato: la sala “solo” cinematografica è un retaggio dell’ultimo mezzo secolo, i film hanno sempre (con)diviso lo spazio con altri e altro. Il mondo, soprattutto occidentale, dimentica presto e spesso. Siamo schiavi di modelli assoluti, che anzi assolutizziamo, e che finiscono per essere traditi e tradirsi regolarmente.

«Mi viene in mente sempre la dicotomia New York-Los Angeles. La fascinazione per la città senza trasporto pubblico, dispersa, contro la Grande Mela densa di popolazione e unità abitative. Poi la scoperta che quest’ultima è più sostenibile. E ora di nuovo scoprire che dobbiamo stare lontani, distanti, e il ritorno in auge di LA. Le dinamiche cambiano, non esistono i modelli assoluti. E pensiamo anche a due parole d’ordine come social e sharing come ora cambiano di direzione».



Sembra averlo chiaro Nicola Maccanico, già alla Warner Bros. e ora CEO di Vision Distribution, società di produzione e distribuzione cinematografica che sembra aver risposto prima e meglio di tutti a questo momento di sbandamento, riconvertendo uscite e strategie sul digitale (e sul rinnovare la filiera e integrare i linguaggi ha anticipato i tempi con L’immortale, successo in sala incastonato tra due stagioni della Gomorra televisiva).

Marco D’Amore nell’Immortale. Foto: Vision Distribution

Da Executive Vice President Programming di Sky Italia, inoltre, può inquadrare il problema in una prospettiva più ampia. «Perché questa fase difficile diventi non di attesa o di tempo perso ma un’opportunità costruttiva, dobbiamo far sì che questo lasso di tempo in cui ci manca un pezzo, la sala, veda la tecnologia come strumento per far rimanere in connessione il pubblico con i contenuti nuovi, in una logica che ovviamente esclude i grandissimi film ad alto budget, non certo solo per una questione emotiva, ma soprattutto industriale. Per i blockbuster il theatrical è fondante e fondamentale, ma tutti gli altri possono solo farsi male nell’aspettare la riapertura, andando incontro a ingolfamenti di uscita e visibilità ridotta. Così ora invece si aprono sbocchi di mercato nuovi e diversi, la tecnologia aiuta gli spettatori a rinnovare l’entusiasmo per un prodotto inedito, ci ricorda quanto è bello trovare storie di cui non sai nulla. Questo in attesa di un ritorno alla normalità, vedendo poi cosa accadrà: ho sempre creduto in una flessibilità intelligente nello sfruttamento dei contenuti. Siamo sinceri, quanti lungometraggi vivono come mera uscita strategica la sala per poi puntare su altri tipi di distribuzione? Usiamo il lockdown e il distanziamento sociale come uno spazio di sperimentazione: così ritroveremo la sala e sapremo usarla al meglio, sapendo proteggere lei e i film che ci arriveranno e destinando altre opere altrove. Alla fine, ne sono convinto da tempi non sospetti, potremmo trovarci con più contenuti e più persone disposti a vederli».



Quella che Rutelli chiama “filiera integrata”: «In fondo la musica questa rivoluzione l’ha già vissuta e ne ha tratto, alla lunga, beneficio». Con i supporti fisici a perdere potere d’acquisto e immaginario, lo spostamento del pubblico sul digitale e una resurrezione dei live come esperienza unica e irripetibile da cercare e valorizzare. «Ma ci tengo a difendere la sala, rimane anche antropologicamente un modello insostituibile, esperienza al contempo collettiva e individuale, personale e condivisa. Sono certo che la volontà di tornarci c’è. Intanto il nostro progetto estivo, Moviement, l’anno scorso volto a dimostrare che la stagione poteva durare 12 mesi, ora è necessario per aiutare i lavoratori del settore portandoli nelle arene estive. E questo ci ricorda che il settore ha problematiche industriali e di sistema che ora non possiamo più ignorare».

Anica, con la sua nuova presidenza, l’ha capito prima di altri, accogliendo in sé soggetti nuovi, dai player del digitale a – di recente – Netflix e altre piattaforme di streaming, noleggio e acquisto film. «Un’unione, quella con Netflix, che nasce ben prima del Covid, e che ora ovviamente vede, da parte di questo colosso, un’esigenza di prendersi le proprie responsabilità, soprattutto alla luce del fatto che per il gigante dello streaming online questa è una contingenza positiva. Stanno cambiando gli spazi, gli strumenti e i tempi della fruizione, ma ancora di più l’importanza dei contenuti, venendo a mancare l’esperienza fisica. Siamo diventati e diventeremo più esigenti, e la stessa sala, quando tornerà, dovrà interagire con questa nuova situazione in modo non banale». Magari con iniziative come Mio Cinema, servizio TVOD per collegare appassionati e cinema d’autore senza eludere, anzi, valorizzando il loro tradizionale punto d’incontro: la sala cinematografica (il primo titolo distribuito sulla nuova piattaforma sarà l’atteso I miserabili di Ladj Ly, Premio della giuria a Cannes 2019, ndr). Un sistema integrato di offerta e comunicazione frutto della sinergia tra Lucky Red, Circuito Cinema e MyMovies, aperto a distributori ed esercenti che vorranno aderire nella salvaguardia del cinema d’essai, e che vede, inserendo il proprio codice di avviamento postale, la possibilità di usufruire della programmazione delle sale di riferimento, che avranno il 40% degli incassi dei biglietti digitali acquistati (soluzione in questi giorni adottata in modo indipendente anche dal film Buio di Emanuela Rossi). Un esempio virtuoso che dimostra come nessuno si salva da solo (cit. il Papa e Margaret Mazzantini) e che, se si deve far rete, bisogna imparare a farlo in un contesto che fatica terribilmente a giocare di squadra.


Un’immagine tratta da ‘I miserabili’ di Ladj Ly. Foto: Lucky Red

Lo si può fare anche da casa propria e con le regole del lockdown, come dimostra il film Il giorno e la notte, che come qualche settimana prima Ruggero De Virgiliis ha fatto con Il cinema non si ferma (pronto per fine maggio, pare), vede il regista Daniele Vicari (Il passato è una terra straniera, Diaz, Sole cuore amore) e nove attori alle prese con un progetto che potremmo definire ispirato al “Dogma Covid”: tutti reciteranno grazie ai kit per riprendersi spediti a casa. Le riprese sono già iniziate. «Il cinema “dopo” sarà ciò che è sempre stato: una continua sperimentazione. La vera morte del cinema è la mancanza di creatività – incalza il regista – e di voglia di intraprendere strade nuove. Le limitazioni non hanno mai fermato nessuna firma d’arte: l’hanno mutata, trasformata, ma non fermata. Forse il cinema seguirà il destino dell’ambiente, se sapremo elaborare il lutto di una cosiddetta “civiltà della tecnica” che ha condotto il mondo sull’orlo della catastrofe. Se, cioè, sapremo reinventarla e superarla, allora anche il cinema si espanderà nel futuro e ci aiuterà a disegnare il nuovo presente, nel bene e nel male. Bisogna senz’altro partire dal paradosso che, dall’inflazione delle immagini prodotte dai social e dalla tv, si dovrà estrapolare un senso attraverso la narrazione. Questo lavoro sul “senso” farà rinascere il cinema, che dal senso delle immagini in movimento trae la propria linfa, non semplicemente dalla ripetizione comoda e un po’ stanca di una industria pigra, modulare, meccanica, seriale. Dipende da noi, che come dei Matt Damon abbandonati su Marte dovremo reinventare la nostra vita attraverso gli strumenti che abbiamo, adattandoli alla nostra nuova condizione di “abbandonati”. E dunque ritrovare lo slancio emotivo, culturale, filosofico, l’amore per l’unicità dell’esistenza che, sono sicuro, ci farà tornare sulla terra».



Di fronte al baratro, insomma, tutti sembrano provare a cogliere la possibilità di un futuro migliore. Per la sala, per i set, per tutto il mondo cinema. Lo conferma, non nascondendosi le difficoltà, Nicola Giuliano, il produttore della Grande bellezza e di “tutto” Paolo Sorrentino (insieme a Francesca Cima e Carlotta Calori, con la Indigo). «Rimane un settore che ha problemi, dalla stagionalità alla concorrenza esterna fortissima, a partire dallo streaming. Ma è anche una realtà tra le poche con piena occupazione e un ricambio generazionale costante e fortissimo. La sala tornerà quando calerà la paura. Sul futuro bisogna distinguere tra breve, medio e lungo periodo. E noi dobbiamo guardare agli ultimi due, sul primo sappiamo che tutti – e parlo del mondo intero, non solo dell’Italia – pagheremo e dovremo farci i conti limitando i danni. Sul medio e lungo periodo dobbiamo puntare sulla richiesta crescente di prodotto, non dimenticando che dopo i giganti della produzione – Hollywood, Bollywood, Nollywood, la Cina e la Francia – ci siamo noi italiani, puntando inevitabilmente sulla diversificazione e su una corsa al rialzo della qualità. Che sarà inevitabile, vista la presenza di tanti attori diversi in campo. Paradossalmente si ha un problema a cui pochi pensano: la domanda è alta e la pandemia blocca le produzioni, e potremmo finire per non poterla soddisfare. Disney+ è in questa impasse, la Rai potrebbe trovarcisi molto presto, anche se ha un archivio immenso che può correrle in aiuto».



Sul ruolo del servizio pubblico, anche Rutelli conferma l’esigenza che vi sia una sua centralità nella rinascita complessiva. «RaiPlay, lo stiamo vedendo ora, tiene testa ai giganti dello streaming: perché non pensarlo come soggetto attivo e non solo come contenitore o spin-off? Potrebbe divenire co-produttore di film e serie proprio come da anni fa Netflix». In tempi in cui molti rischiano di rimanere a casa, rilanciare diventa necessario. «Internazionalizzare, difendere il lavoro, puntare di più sulla formazione, implementare la tecnologia, ristrutturare le sale, rendere più solido un settore che è virtuoso – nessuno ha tante donne e giovani tra le proprie fila – ma che ha bisogno di rendersi più strutturalmente stabile e competitivo, uscire da un orizzonte domestico e guardare fuori dai confini: ecco alcune delle partite da giocare e vincere».

Duecentomila famiglie dipendono da questo comparto, eppure nessuno sembra preoccuparsene. «È un problema di percezione: tutti immaginano il cinema come fighetto e assistito. E invece è popolare sia nella fruizione – quanti altri eventi costano 10 euro o anche meno? – sia nella popolazione di lavoratori che ne costituisce la linfa vitale. E restituisce allo Stato molto più di quanto prende. Per modificare questa visione, da Ministro della Cultura decisi di introdurre il tax credit, per inserire un fattore meritocratico contro la selettività discrezionale dei fondi. E la fortuna ora è che Franceschini, grazie alla sua visione e all’aver potuto lavorare cinque anni – io ne ebbi solo due – ha varato una validissima riforma di sistema, la prima di questo settore».

Proprio alla politica, il suo primo amore, va l’ultimo appello. «Protocolli e precauzioni potrebbero strozzare soprattutto le produzioni più indipendenti: di quell’aumento di costi lo Stato si faccia carico, aiutandole. E a chi storce il naso ricordo sempre che Georgia e Alabama, 15 milioni di abitanti in tutto, spendono ciascuno il doppio del denaro pubblico che l’Italia destina al cinema».

Insomma, andrà tutto bene? Forse anche meglio. Se sopravvivremo.