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Attore comico o drammatico? Steve Carell è la dimostrazione che possono non esserci né barriere né categorizzazioni. Certo, bisogna avere un talento come il suo, capace di passare dalla commedia pura (il cult The Office su tutti) al dramma darkissimo (Foxcatcher), o di restare in equilibrio su una linea sottilissima. Nel giorno del suo compleanno (happy birthday!), ripassiamo le vette della sua carriera.
Dopo qualche piccola partecipazione in serie e film (vedi Una settimana da Dio), è il ruolo del meteorologo Brick Tamland nel cult demenziale della premiata ditta Adam McKay e Will Ferrell a consacrarlo come idolo comico. Le facce, il look, la capacità di rubare la scena anche da volto di “seconda fila”: a star (of comedy) is born.
Un anno e qualche altra comparsata (Melinda e Melinda di Woody Allen e Vita da strega di Nora Ephron) dopo, è Judd Apatow a dargli il primo vero ruolo da protagonista sul grande schermo. Cioè quello di Andy Stitzer, il commesso “mai stato baciato” (no: di più) che è insieme spassossimo e tenerissimo. Vale su tutte la scena della depilazione (fallita) del petto villosissimo. Ma tutto il resto è una hit.
La serie che lo consacra fino all’infinito e oltre. No: LA serie. The Office, remake americano del culto che batte bandiera britannica, non è solo un enorme successo televisivo. È la comedy che cambia le regole della scrittura e della recitazione sul piccolo schermo USA. Nove gloriosissime stagioni, scene da antologia che non stiamo a ricordare, un fandom tuttora appassionatissimo. E Carell è il mattatore assoluto. Punto.
Passa una stagione (di cinema), e Steve è nel cast della commedia indie che ridefinisce il concetto di commedia indie. Accanto al “mostro” Alan Arkin e al prodigio Abigail Breslin (più Greg Kinnear, Toni Collette e Paul Dano) è lo zio omosessuale che ha tentato il suicidio. E che, grazie a quello scombinato clan, ritroverà la voglia di vivere. È il primo passo, dalla porta principale, nei territori della dramedy: prova egregiamente superata.
Deviazione nell’animazione (pardon). Ma con un instant classic che deve moltissimo alla performance vocale di Carell. Certo, ci sono i Minion a prendersi sempre lo spotlight. Ma il cattivissimo (si fa per dire) Gru protagonista è uno dei villain (si fa per dire/2) più amati di sempre. Vedi gli innumerevoli sequel e spin-off. E in curriculum c’abbiamo pure il cartoon cult, tiè!
Dopo rom-com in cui era decisamente fuori parte (L’amore secondo Dan accanto a Juliette Binoche) e action comedy che hanno floppato (Agente Smart con Anne Hathaway), arriva la coppia Ficarra & Requa a dargli un ruolo custom made. Quello di Cal, un neodivorziato che impara l’arte della seduzione dal fusto Ryan Gosling. Non più vergine, ma sempre impacciatissimo: e, anche qui, adorabile.
Passate annate di titoli non eccelsi, arriva Bennett Miller, il regista di Truman Capote – A sangue freddo, a dargli la più grande occasione drammatica della sua carriera. Il nostro entra nella storia, vera e nerissima, di John Eleuthère du Pont, il milionario che investe su un talento della lotta libera (Channing Tatum). Finendo travolto in una spirale senza fine. Prima, unica e meritatissima nomination all’Oscar: finalmente Steve non è più solo “il comedian”.
“Quel” McKay di Anchorman torna, ma stavolta nella chiave satirica che tutti avremmo apprezzato anche in seguito (vedi i più recenti Succession, dove figura come produttore, e Don’t Look Up). E gli regala la parte chiave del trader coinvolto suo malgrado nella truffa (e relativa crisi) finanziaria del 2008. Uno dei più lucidi e spietati affreschi dell’America dell’altroieri, e anche di oggi. E Steve, che ritroverà il “suo” regista in Vice nei panni di Donald Rumsfeld (!), c’era.
In origine il ruolo dell’agente Phil Stern, che s’incapriccia della starlette Vonnie (Kristen Stewart), era stato offerto a Bruce Willis. Che però ha scazzato Woody. Ecco dunque entrare nel progetto il nostro, che dà corde più sfumate al ritratto di un potente della Hollywood d’antan. Il film è una delizia. E anche la rivalità tra lo zio Phil e il nipote Bobby (Jesse Einseberg), innamorati della stessa donna.
Non un capolavoro, ma una partita doppia (letteralmente) che riconferma il talento dell’attore nel saper sempre stare in equilibrio tra dramma e farsa. Il biopic sulla lotta sportiva e “di genere” tra i tennisti Bobby Riggs e Billie Jean King (Emma Stone) è uno spasso grazie ai due interpreti principali. Impossibile attribuire il match point.
Uno dei film più sottovalutati di Carell. E anche di Richard Linklater, che racconta la storia di tre reduci del Vietnam che affrontano un on the road per l’America per dare degna sepoltura a un soldato morto in Iraq. Un ritratto doloroso e umanissimo ma mai pietista, nelle mani di un trio superlativo: Laurence Fishburne, Bryan Cranston e il nostro Steve, of course.
Nell’anno del drammone strappalacrime Beautiful Boy, dove fa il padre di Timothée Chalamet (caro casting director, sicuro sicuro?), è questo strano “oggetto” tra live-action e animazione firmato dal grandissimo Zemeckis il titolo da segnalare. Un altro film assai sottovalutato: ma la performance di Carell in versione “bambolo” resta una delle più curiose e coraggiose della sua filmografia.
A quasi dieci anni di distanza dalla fine di The Office (e prima della pasticciatissima parodia sci-fi Space Force), è questo dramma a sfondo MeToo a riposizionare il nostro sul piccolo schermo. Con un ruolo di cui riesce a restituire tutta l’ambiguità, ma senza mai giudicarlo. Il trio con Jennifer Aniston e Reese Witherspoon è esplosivo, ma nella seconda stagione arriva la nostra Valeria Golino: e sono (altre) scintille.
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