Tutti i film di David Fincher, dal peggiore al migliore | Rolling Stone Italia
Classifiche e Liste

Tutti i film di David Fincher, dal peggiore al migliore

Il poliziesco come nessuno l’aveva mai fatto prima (da ‘Seven’ a ‘Zodiac’) e la partita doppia di ‘Fight Club’. Fino all’affresco social che ha anticipato il nostro tempo. Con protagonista un certo Mark Zuckerberg...

Tutti i film di David Fincher, dal peggiore al migliore

Brad Pitt in una scena di ‘Seven’

David Fincher è Dio. Non siamo noi a dirlo: è lui medesimo, probabilmente a sua insaputa. «La regia comprende tutto», disse una volta. Del resto, il regista nato a Denver il 28 agosto di 59 anni fa l’ha dimostrato come pochissimi altri colleghi. Rifuggendo dal cinema più classicamente “d’autore” e al tempo stesso diventando un autore totale, capace – anche nei titoli di puro intrattenimento – di portare la sua firma, il suo mondo. Amatissimo dal pubblico, altrettanto venerato dai critici, ma mai premiato come avrebbe meritato: incredibile ma vero, è stato candidato all’Oscar solo tre volte, e non ha mai vinto una statuetta. Dal poliziesco come nessuno l’aveva mai fatto prima (vi basta la parola Seven?) alle psicosi che hanno messo almeno una generazione K.O. (leggi: Fight Club), fino alla summa “virtuale” (si fa per dire) di un’intera poetica che è The Social Network: ecco la guida (speriamo) definitiva ai suoi film.

11Millennium – Uomini che odiano le donne (2009)

Dal primo romanzo del ciclo Millennium del compianto svedese Stieg Larsson (già diventato il film che ha lanciato Noomi Rapace), un post-remake che non è un passo falso, ma forse l’esito meno sorprendente nella filmografia di Fincher. Soprattutto considerato il fatto che il regista arrivava dall’enorme The Social Network (vedi – molto – più avanti). L’orchestrazione del thriller ad altissimo tasso di dark si fa ancora più nervosa, nel fotografare la vendetta della instant-icon Lisbeth Salander (una Rooney Mara perfettamente in parte, anche se forse un po’ troppo generosamente candidata all’Oscar). E piazza scene di sesso e violenza a dir poco perturbanti. Il successo al box office è stato significativo ma non stratosferico. Tanto che la saga, com’era partita, si è subito interrotta.

10Alien³ (1992)

Il regista di alcuni dei videoclip più memorabili degli anni ’80 e ’90 (vedi Vogue di Madonna e Freedom! ’90 di George Michael) viene assoldato per dirigere il terzo capitolo di una delle saghe sci-fi più monumentali di tutti i tempi. Un debutto alla regia di un lungometraggio che non tutti avrebbero saputo gestire con la stessa abilità, addirittura quasi con sprezzo del pericolo. Per questo le critiche dei detrattori (soprattutto quelli che avevano amato il secondo episodio: Aliens – Scontro finale di James Cameron) suonano oggi piuttosto pretestuose. Lo stesso Fincher disconobbe il film, accusando la produzione di avergli lasciato poca libertà e diffondendo successivamente un “director’s cut”. Ma questo resta l’episodio in cui Ripley/Sigourney Weaver si trasforma definitivamente (o quasi) nella madre della Creatura: il che basta a fare la storia. E anche uno dei più originali visivamente: dopotutto, stava nascendo un nuovo autore. E che autore.

9Il curioso caso di Benjamin Button (2008) – disponibile su Netflix

Lo spunto è il racconto breve di F. Scott Fitzgerald, il copione è affidato a Eric Roth, acclamato sceneggiatore di Forrest Gump, che dà anche a questo film, probabilmente il meno fincheriano di tutti, una struttura simile e un sentimentalismo diffuso. Non c’è una trama complessa in Benjamin Button: è semplicemente una cronaca della vita del protagonista e di tutte le relazioni che instaura lungo il cammino, un’epopea costruita ad arte su un uomo che – e qui sta la parte wow – nasce vecchio e, man mano che passano gli anni, ringiovanisce. Il regista si allontana dai territori oscuri del thriller che ne hanno plasmato la reputazione per girare (in digitale) un mélo americano sovraccarico di effetti speciali. Starring – altra parte wow – un Brad Pitt che era ormai diventato uno dei volti-feticcio di Fincher (vedi più avanti), e che qui vediamo troppo poco non modificato al computer. Una riflessione sulla pienezza della vita in cui Fincher mette la sua fascinazione per l’inesorabile trascorrere del tempo, che diventa straziante applicato alla storia di qualcuno che vive al contrario.

8Panic Room (2002) – disponibile su Netflix

Dopo la partita doppia di Fight Club, arriva un film che è divertimento puro. Dello spettatore e dell’autore, che prosegue sulla strada delle prodezze tecniche. E che, qui più che mai, si diverte a “fare Hitchcock”. Tanto che in principio la parte della protagonista era stata assegnata alla bionda più “ghiaccio bollente” dell’epoca: Nicole Kidman. Un perfetto mix di «glamour and physicality», come ebbe a dire lo stesso Fincher della diva, che però fu costretta ad abbandonare il set a causa di un infortunio. Poco male: Jodie Foster ha un’immagine diametralmente opposta, ma si carica sulle spalle il Kammer-thriller (l’unità di spazio e tempo è pressoché totale) da fuoriclasse assoluta dello schermo qual è. Mettendo a segno una delle sue eroine più indimenticabili. Quasi quanto la “spalla” Kristen Stewart: giovanissima e (forse) mai più così brava.

7The Game – Nessuna regola (1997)

Una misteriosa organizzazione il cui scopo è sottoporre le persone alla peggiore esperienza della loro vita. Michael Douglas nei panni di uno Scrooge moderno che viene coinvolto nel gioco a causa del fratello “terribile” interpretato da Sean Penn. The Game è un thriller efficacissimo la prima volta che lo guardi. La seconda – quando sai come va a finire – un po’ della tensione al cardiopalma svanisce, ma d’altra parte è un discorso che si può allargare a gran parte del genere. Fincher ha affermato che i numerosi buchi della trama e i salti logici sono intenzionali, e che il suo scopo era quello di creare un meta-thriller su come sono costruiti i thriller stessi. Per molti The Game è un’opera minore del regista, e molto probabilmente è così. Ma si sa: le opere minori dei grandi acquisiscono valore con il tempo.

6Mank (2020)

La (insieme) ricostruzione e decostruzione della Hollywood della Golden Age è un progetto che Fincher accarezzava da tempo. E quello che, forse, lo riguarda più da vicino. Alla base c’è un copione del padre Jack, morto nel 2003. Dopo tira e molla con le major per i finanziamenti, è arrivata Netflix a investire. E a lasciare carta bianca al regista, che ha messo nel biopic dello sceneggiatore di Quarto potere, Joseph L. Mankiewicz, le sue ossessioni su arte e potere, industria e corruzione, realtà e suo “doppio” immaginifico. Retto da una prova mostruosa di Gary Oldman (ma notevoli anche i comprimari Amanda Seyfried e Charles Dance), Mank è un film che insieme celebra e distrugge la Mecca del Cinema. E il suo effimero mito.

5L’amore bugiardo – Gone Girl (2014)

Ancora un film minore? Tutt’altro. Anche se persino qualche fan è rimasto (incredibilmente) freddo. Il genio del nostro, invece, si vede eccome. E si riconosce non tanto nella scelta del soggetto, quanto nel suo sviluppo. Alla base c’è difatti un bestseller (di Gillian Flynn, anche autrice della sceneggiatura) che è un rompicapo giallo travestito da chick lit; ma l’adattamento che ne deriva è, soprattutto, la ricognizione dello stato dell’unione (nel senso di: matrimonio) ai giorni nostri, in cui ciascuno vuole essere quello che non è. Dal marito (un ingiustamente sottovalutato Ben Affleck) alla moglie (la finalmente consacrata Rosamund Pike, candidata agli Academy Award di quell’anno) è tutto un gioco di (dis)simulazione, a cui la regia va dietro esagerando con intelligenza sul versante noir-grottesco. Fino a un finale Grand Guignol da antologia. Un grandissimo successo di pubblico, ma la critica (e i premi) è rimasta tiepida: non vi va mai bene niente, neanche un film bellissimo come questo.

4Fight Club (1999)

Fight Club è una commedia slapstick travestita da thriller psicologico alla David Fincher, un classico americano che non fa compromessi: «Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club», Brad Pitt dixit. Tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk del 1996, il film è una sorta di resa dei conti con il XX secolo, mentre ci preparavamo a entrare nel XXI più incazzati che mai. Il suo umorismo audace e livido affronta a muso durissimo topic caldi come l’essere giovani, “maschi” e impotenti contro la droga pacificante del consumismo, tanto che l’unica soluzione per sentirsi vivi è darsele di (non) santa ragione. Col senno di poi, una profezia fatta e finita del nichilismo e dell’alienazione che viviamo oggi. Ci sono solitudine, disperazione e rabbia starring, tra un combattimento a petto nudo nei sotterranei luridi e una bomba fatta in casa, un grande Edward Norton e un grandissimo Pitt, che allora rischiò tutto con quello che forse ancora oggi resta il suo personaggio più iconico: Tyler Durden, il profeta macho e anarchico di Fight Club.

3Zodiac (2007) – disponibile su Netflix

Quello che avrebbe potuto essere un semplice thriller su un serial killer diventa una tappa cruciale nella filmografia di Fincher. Perché da un lato esalta il lavoro sul genere poliziesco iniziato con il caposaldo Seven (vedi una posizione più avanti), dall’altro anticipa le mosse future della sua carriera: la serie Mindhunter, che arriverà dieci anni più tardi, sembra quasi uno spin-off di questa storia. Ovvero, la calda estate del “killer dello zodiaco”, che – al di là della cura certosina con cui viene ricostruita la cronaca dell’epoca (era il 1969) – serve al regista per confermare una sua vecchia e granitica teoria: gli assassini psicopatici servono solo a svelare le nostre, di psicosi. Tanto che, più che temerli, finiamo ogni volta per esserne sedotti. Sequenze di regia stupefacenti (vedi gli omicidi con cinepresa fissa) e un tris d’attori fenomenale (Mark Ruffalo, Robert Downey Jr., Jake Gyllenhaal). Ma anche stavolta nessuna nomination: vergogna.

2Seven (1995)

Altro giro, altro clamoroso Brad Pitt, a fianco degli altrettanto clamorosi Morgan Freeman e Kevin Spacey (e di Gwyneth Paltrow, sua fidanzata di allora). Qui Fincher fa dell’allora golden boy di Hollywood un True Detective ante litteram, stropicciato e tormentato, in coppia con il più controllato Freeman. Al centro c’è la loro corsa tesa e spaventosa per rintracciare un serial killer fanatico che costruisce i suoi omicidi intorno ai sette peccati capitali. Ci sono un’atmosfera plumbea, un ritmo inarrestabile, una violenza insopportabile, una suspense che non ti lascia mai respirare, nemmeno dopo un finale indimenticabile come pochi altri. Non è l’identità dell’assassino che rende Seven quello che è, ma il modo in cui Fincher solleva l’enigma a livello di provocazione morale. In questo suo secondo (!) film, un neo-noir epocale che ha lanciato carriere e ne ha galvanizzate altre, c’è tutta la sua poesia sadica. Il più grande mystery thriller del cinema moderno, da perdere la testa (pardon).

1The Social Network (2010) – disponibile su Netflix

Molti lo hanno definito “il più grande film degli anni ’10” (se non del millennio tout court). Non potremmo essere più d’accordo. Perché questo non è il biopic di Mark Zuckerberg (alias la fotocopia Jesse Eisenberg): è la storia della nostra vita da quando, proprio in quegli anni, abbiamo deciso di consegnarla alla nostra proiezione digitale. Ma – merito anche della formidabile penna dello sceneggiatore Aaron Sorkin, giustamente premiato con l’Oscar – non c’è moralismo di sorta. Sullo schermo resta solo la ricognizione scientifica di un mondo che è cambiato per non cambiare di una virgola: si cerca il successo solo per (com)piacere (al)le ragazze, si tradiscono gli amici (tra cui il meraviglioso Sean Parker di Justin Timberlake), si rimane gli sfigati di prima, di sempre. Tra le solite luci glaciali e un pazzesco duo alla colonna sonora (Trent Reznor e Atticus Ross), Fincher trova anche stilisticamente la sintesi definitiva. Avrebbe meritato anche le statuette per il miglior film e la miglior regia, ha vinto in entrambe le categorie Il discorso del re: non diciamo niente.

Bonus: Mindhunter (2017-2019) – disponibile su Netflix

Fincher aveva già capito quali fossero le potenzialità della serialità contemporanea nel 2013, quando ha diretto i primi due episodi dell’instant-fenomeno House of Cards. Ma con Mindhunter entra nei territori del crime psicologico che sono la sua dichiarata ossessione. La serie sugli agenti dell’FBI che hanno inventato il profiling del serial killer moderno è coraggiosamente più lenta e riflessiva della media dei titoli in circolazione. E il nostro sa rendere trascinanti anche i lunghissimi (e potenzialmente noiosi) interrogatori dei criminali, attesi come vere e proprie scene cult dal pubblico. Il resto lo fanno scrittura e ricostruzione d’epoca. Un concentrato della poetica del regista, che contagia anche l’elegantissima messinscena.