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Se non l’avete mai visto, cercate su YouTube il video “A compilation of people stanning Cate Blanchett”. Da Julia Roberts a Matt Damon, da Saoirse Ronan a Sir Ian McKellen, tutti porgono il loro tributo alla divina australiana. Che ormai è più che un’attrice: è un modo di recitare e di essere – anche per immagine e stile – del tutto unico, nel cinema contemporaneo (e non soltanto). Nel giorno del suo compleanno, proviamo a stilare la sua Top 10. Sacrificando molti (troppi) titoli: dal Talento di Mr. Ripley a Babel, fino alla nuova miniserie Mrs. America (ancora inedita da noi). Ma confermando quella tesi inconfutabile: come lei, è proprio vero, non c’è nessuna.
Nel buddy movie targato Marvel by Taika Waititi, Cate Blanchett è la Tvillain della situazione con tanto di look dark-emo e copricapo di corna nero come la pece. Hela, la Dea della morte, è la sorella di Thor, che è tornata ad Asgard per mettere fine al patriarcato. Peccato che per farlo inneschi il Ragnarok. Morale: date una cattiva a Cate, e lei scatenerà l’Apocalisse.
L’adattamento della più classica delle fiabe firmato da Kenneth Branagh non sarà certo ricordato come rivoluzionario, ma la presenza di Cate nei panni della matrigna della bella e sfortunata Cenerella (qui Lily James) aiuta. Niente riesce a rubarle la scena, tranne i costumi di Sandy Powell: un guardaroba delle meraviglie tra abiti sgargianti, piume e cappellini. Stronza sì, ma fashion come nessuna.
Prendi un’attrice come la nostra Cate. Affidala a un artista visivo tedesco con un senso dell’umorismo contorto. Falle interpretare 13 ruoli diversi, tra cui archetipi femminili che vanno dalla casalinga del sud alla giornalista mezzobusto delle news. Al posto dei dialoghi, mettile in bocca alcune delle più celebri dichiarazioni di intenti sociopolitici e artistici mai scritte. Chi altro avrebbe potuto essere credibile? Per molti questa operazione sarebbe dovuta rimanere quello che era all’inizio: un’installazione. Con Blanchett diventa cinema di nicchia che funziona davvero solo grazie a lei.
Cate indossa i panni nobili e post-femministi della temibile Regina Vergine come un guanto. E rende questo period piece più vivo che mai: Blanchett è on fire nella trasformazione da giovane dolce e innamorata (di Lord Durdley) a sovrana ribelle e decisa a non sposarsi. Il sequel di una decina d’anni dopo pare più una soap opera, ma ci regala ancora una volta una Cate in grande spolvero modaiolo (dell’epoca), tra cofane e mise improbabili.
Bellissima, luminosissima, potentissima. Peter Jackson vuole Cate (chi altri?) a vestire i panni della regina elfica Galadriel, uscita dalla penna di Tolkien. E Blanchett si trova decisamente a suo agio nella Terra di Mezzo, tra orecchie a punta e quenya, una delle lingue parlate dagli elfi. Tanto che ci tornerà anche per la saga prequel, Lo Hobbit nonostante il suo personaggio non fosse nei libri. Tanto gli elfi mica invecchiano, un po’ come Cate.
Uno dei duelli tra attrici più strepitosi degli anni 2000 (e non solo). Chi è la più bitch tra la zitella Judi Dench e la prof (con amante minorenne) Cate Blanchett? Giudicate voi. L’una tiene testa all’altra, in un crescendo mélo di isteria da spellarsi le mani. E, per la più giovane, è la prova definitiva che ormai gioca nel campionato dei grandissimi. Nomination agli Oscar a entrambe: alla protagonista Judi la statuetta fu sottratta da Helen Mirren per The Queen (ubi Elisabetta…), alla non protagonista (si fa per dire) Cate dalla Jennifer Hudson di Dreamgirls. E su questo è meglio tacere.
Il ruolo? La divina Katharine Hepburn. Il regista? Martin Scorsese. Il co-protagonista? Leonardo DiCaprio. Vi è esploso il cervello? A Cate no. Da professionista qual è, prende una delle attrici più celebri e amate di tutti i tempi e, guidata da Marty, la smonta e la rimonta a sua immagine. In un film da molti incompreso, ma in realtà capace di svelare moltissimo della Hollywood che fu (capito, Ryan Murphy?). Alla seconda candidatura, il primo Academy Award. L’impresa che pareva impossibile è stata ampiamente vinta.
Uno dei finali forse più laceranti degli ultimi dieci anni di cinema: Blanchett sulla panchina (e sempre più scollata dalla realtà) prende irrazionalmente coscienza del fatto che quello che è stato non tornerà più. Il sommo Woody le affida un ritratto al femminile che è una montagna russa: da viziatissima lady di Park Avenue a donna che non sa cosa fare di se stessa. Martini ingollati uno dopo l’altro e deliri nelle boutique di lusso, con Blue Moon in sottofondo: il tour de force è da (meritatissimo) Oscar. Stavolta da protagonista.
Tra tutti i falsi Bob Dylan ingaggiati da Todd Haynes per il suo falso biopic (Christian Bale, Richard Gere, Heath Ledger), la versione di Cate Blanchett è, a sorpresa ma non troppo, quella più vera del vero. Ricci e occhiali scuri, la nostra non diventa il poeta rock: lo è, e basta. «Spero di non incontrare mai il vero Bob nella vita», disse lei all’epoca dell’uscita del film. Ma, di fronte a una performance così clamorosa, siamo certi che anche lui avrà apprezzato.
Todd Haynes, che aveva già visto in lei il Bob Dylan di Io non sono qui, innalza un altro monumento alla classe e al talento di Cate. Che, signora lesbica (ovviamente in the closet) anni ’50, non è mai stata così regale e struggente insieme. In the closet, ma letteralmente, anche alcuni degli abiti (e delle vestaglie) più belli da lei sfoggiati sullo schermo: anche questo è essere (ormai) diva totale. Ennesima (e obbligata) nomination agli Oscar, ma quell’anno vinse la Brie Larson di Room: non diciamo niente.
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