FOTO
Rivoluzionando Sherlock Holmes, trasformandosi in un supereroe Marvel, scegliendo sempre progetti coraggiosi, Benedict Cumberbatch ce l’ha fatta pure a Hollywood. E ha costretto tutti a imparare quel nome impossibile (vedi il generatore automatico di nomi di Benedict Cumberbatch). Attore shakeaspeariano premiatissimo (se non conoscete il suo Amleto a teatro, fate in modo di recuperarlo) e instant star dello schermo con conseguente nomina a sex symbol dell’Internet, il nostro, quintessenza del british, ha mandato in visibilio mezzo genere femminile (e non solo) con i suoi zigomi e la sua voce baritonale, oltre che con il suo talento. Perché il suo successo è merito anche di quel mix di fascino e freddezza, intelligenza e cazzoneria (agli Oscar la fiaschetta era la sua migliore amica). Per festeggiare il suo compleanno (happy birthday!), abbiamo selezionato il suo best of.
Cameo instant cult, fin dall’annuncio. Se la voce di Dio è Frances McDormand, chi altro poteva doppiare Satana nell’adattamento dell’iconico romanzo apocalittico scritto da Neil Gaiman, uno dei più grandi autori post-contemporanei, insieme al re del fantasy umoristico Terry Prachett? Pochi minuti, ma nel mito.
I biopic fatti come si deve sono altri. Ma il ritratto che Benedict regala del “nemico pubblico numero 1” Julian Assange è più vero del vero. Capelli candidi e sguardo di ghiaccio, l’attore dà al fondatore di WikiLeaks uno spessore umano certamente molto romanzato, ma assente dalla figura a cui ci avevano abituati i reportage giornalistici. E ne fa un personaggio quasi scespiriano, al tempo stesso critico nei confronti del potere, ma affascinato dalla possibilità di diventare un eroe popolare. Al vero Assange però non è piaciuto: «È un’opera che demolisce la mia credibilità».
Altro giro, altra biografia. Stavolta però di una figura pressoché sconosciuta oltre il canale della Manica. Eppure Dominic Cummings, il politico cui dà volto Cumberbatch, è stato il vero stratega dietro la Brexit. E dunque l’uomo che ha cambiato per sempre il corso della storia britannica (ed europea). Un film tv passato quasi inosservato, ma con un copione infallibile che sa mettere insieme la cronaca minuziosa e la tradizione del teatro inglese. Ci voleva un mattatore come Benedict a sostenerlo: e infatti, anche in questo caso, si prende la scena.
Il villain con l'accento british è diventato un cliché fin troppo abusato a Hollywood, ma qui Cumberbatch dimostra perché funziona tanto bene. La mission era praticamente impossible: vestire i panni del più famoso cattivo nell'universo di Star Trek, Khan, già diventato iconico per i fan grazie all’interpretazione memorabile di Ricardo Montalban. Ma Benedict può tutto. Nella sua versione il personaggio è un essere umano geneticamente modificato, un terrorista che viene catturato dal Capitano Kirk. E le scene in cui è rinchiuso sull’Enterprise e cerca di manipolare l’equipaggio sono il momento clou del film.
Nel drammone Black Lives Matter approved su Solomon Northup, che si è portato a casa tre Oscar, Benedict ha un ruolo da supporting: quello di William Ford, il proprietario di piantagioni realmente esistito che fa da contraltare al perfido schiavista di un Michael Fassbender larger than life. E Cumberbatch riesce senza nessuno sforzo a camminare sulla linea sottile tra bene e male: il suo personaggio possiede degli schiavi e non prova rimorso, ma è senza dubbio il più compassionevole tra i suoi pari, tanto da regalare persino un violino al protagonista.
Un altro villain clamoroso per Cumberbatch, questa volta nella nuova trilogia di Peter Jackson, Benedict interpreta Smaug, il drago psicopatico che ha usurpato l'antico regno di Erebor. E questa combo di motion capture e performance vocale, che affascina e terrorizza, è la sua prova d’attore definitiva. Andy Serkis, spostati.
C’è un confine tra la definizione di “attore tra i più impressionanti della sua generazione, divisione britannica” e quella di “star”: in mezzo c’è l’ingresso di Benedict negli Avengers e il passaggio attraverso la cosiddetta Marvel Movie-Star-Making Machine (vero, Robert Downey Jr.?). Il dottor Stephen Strange è un brillante neurochirurgo egomane e stronzissimo che si ritrova le mani rovinate dopo un incidente d’auto e scopre l’umanità e le Arti Mistiche. Il secondo capitolo ha riconfermato l’appeal del personaggio. E di Benedict..
Quello di Alan Turing è (finora) l’unico vero big role al cinema di Benedict. Che si è guadagnato anche la sua prima nomination all’Oscar nei panni del matematico capace di inventare il primo prototipo di computer e decifrare il codice Enigma dei tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma che, in seguito, è stato perseguitato a causa della sua omosessualità, considerata un crimine nell’Inghilterra degli anni ’50. Morale: date a Cumberbatch un genio tormentato da interpretare e farà sempre faville.
Quello di Patrick Melrose, tratto dal ciclo di racconti semi autobiografici di Edward St. Aubyn, è uno dei personaggi più assurdamente dimenticati nei best of del nostro. E anche uno dei più giganteschi: un tossicodipendente dell’upper class segnato da un’infanzia traumatica con padre abusivo e una madre succube. Droghe (tutte) à gogo, enormi quantità di autodistruzione, vagonate di humor nero, un carico di sguardi à la Cumberbatch da dissoluto britannico. Praticamente un Amleto sotto eroina.
Sorry Basil Rathbone, scansati Robert Downey Jr. Per noi (e per Spielberg) non esiste altro Sherlock Holmes all’infuori di Cumberbatch. Steven Moffat e Mark Gatiss hanno rivoluzionato il classico del padre del forensic crime-solving senza compromettere lo spirito originale. Grazie a una scrittura brillantissima, un Watson d’eccezione (Martin Freeman), un cattivo clamoroso (il Moriarty di Andrew Scott), ma soprattutto per merito di un magnifico Benedict, capace di dare la sua impronta definitiva, con carico di narcisismo intrinseco e tendenze ossessivo-compulsive, al detective creato da Sir Arthur Conan Doyle. Storia della tv.
Ed è arrivata la queen neozelandese Jane Campion a offrirgli quello che, finora, è IL ruolo in assoluto. Quello dell’anti-cowboy che, sotto il machismo tossico, nasconde la non accettazione di sé e della propria sessualità. In un crescendo di pathos (e attraverso un lavoro pazzesco sull’accento “ammerigano”) che porta a un finale clamoroso. Come la sua performance, che gli è valsa un’altra nomination all’Oscar. Ma “purtroppo” a quel giro c’era un certo Will Smith… Ad ogni modo, l’interpretazione che, ad oggi, resta più impressa nella memoria.
Restiamo
in contatto
Ti promettiamo uno sguardo curioso e attento sul mondo della musica e dell'intrattenimento, incursioni di politica e attualità, sicuramente niente spam.