Chiedi chi era Luke Perry | Rolling Stone Italia
Ma quale bad boy

Chiedi chi era Luke Perry

'I Am Luke Perry' è un ritratto affettuoso e senza pretese dell'attore, prodotto dall'amico e collega Jason Priestley. Dagli anni del delirio pop di 'Beverly Hills, 90210' alla lenta riconquista della propria identità artistica

Chiedi chi era Luke Perry

Foto: Ron Davis/Getty Images

Fa uno strano effetto sentire di nuovo la sua voce, è più delicata di quanto ricordassi, sembra quasi quella di un ragazzino. Chi è cresciuto con Beverly Hills, 90210 (eccomi) la ricorda filtrata dal doppiaggio italiano, dal mito di Dylan McKay (anche se avevo la t-shirt di Brandon, “son ragazzi”), da quell’alzata di sopracciglio sotto gli occhiali scuri della sigla. I Am Luke Perry, il documentario prodotto dall’amico e compagno di set Jason Priestley (questa sera su Sky Documentaries e in streaming su NOW), è un ritratto senza pretese, semplice e dolce, un modo per celebrarlo a 360 gradi, come attore e come persona. Un film che non riscrive certo la sua storia, ma la ricuce pezzo per pezzo attraverso chi lo ha vissuto, restituendogli un pochino di quella complessità che l’isteria degli anni ’90 gli aveva tolto.

«Quando sei un idolo dei teenager, si dà per scontato che tu non sia un bravo attore», sorride amaro all’inizio lo stesso Jason. Ne sa qualcosa pure lui, per lo showbiz era quasi una colpa stare sui poster nelle camerette. «Molti pensavano avesse solo un bel viso. Ma Luke era molto più di Dylan McKay».

Beverly Hills ha trasformato un attore sconosciuto nel nuovo idolo di Hollywood. La fama fu un’onda anomala, travolgente: «Tutti vogliono la celebrità, finché non capisci che è molto meglio non averla», commenta Timothy Olyphant, co-protagonista in C’era una volta a… Hollywood (ci arriviamo). Perché Perry, in quegli anni in cui emergevano Brad Pitt e Leonardo DiCaprio, era persino più famoso di loro. Avrebbe potuto vivere di rendita, ma non lo ha mai fatto. «Ho sempre pensato che ci sarei riuscito», dice Luke in una delle interviste d’epoca. «Ma non pensi mai che andrà proprio così». E quel “così” racconta un’ascesa che ricorda più il delirio degli anni di Elvis o dei Beatles che l’ordinario successo televisivo. Di nuovo Olyphant: «Non sembrava una superstar, era semplicemente un attore. E questo per me è un grande complimento».

Foto: Sky

Per capire da dove spuntasse quel ragazzo che avrebbe incendiato la cultura pop dei ’90, bisogna tornare a Fredericktown, Ohio. Piccola cittadina agricola da 2500 anime. Madre, patrigno, western e soap opera in tv, con i sogni che iniziavano a prendere forma nei corridoi del liceo. «Non avevo mai visto una Porsche finché non sono arrivato in California», racconta Luke sorridendo. A 18 anni prende un autobus per New York: provini, rifiuti e intanto piccoli ruoli nelle soap Destini e Quando si ama. Jason Priestley racconta la stagione dei pilot del 1990 come un campo di addestramento: «Cinque provini al giorno, pile di copioni sul letto, settimane così». Luke non mollava. «216 audizioni. La paura di fallire? Ci sentiamo dire di no molte volte, ma significa “no” soltanto se ci credi».

E infatti la direttrice del casting Diane Young si accorge di lui. «L’ho guardato e gli ho detto: “Non sei l’attore che sto cercando per questa serie”. Ha risposto: “Lo so, ma so chi sei e volevo soltanto conoscerti”. Ho pensato: “Devo ricordarmi di lui”». E infatti lo richiama quando Chuck Rosin, sceneggiatore e produttore esecutivo di Beverly Hills, 90210, cerca il “classico ragazzo cattivo”. Perry entra nella stanza, legge il copione, e non c’è più nulla da dire: Dylan McKay è lui.

«Quando abbiamo fatto il provino per la Fox Broadcasting Company però Luke era nervoso e non è andata come speravamo», ricorda Rosin. «Il network non capiva perché chiedessimo più soldi per aggiungere quel personaggio dopo il pilota. E Aaron Spelling, che di solito non era molto propenso a spendere soldi extra, ha detto: “Lo pago io”». Il resto è storia della tv. La serie (anzi, il telefilm!) esplode. È il 1990, c’è la Guerra del Golfo ma Fox non ha un telegiornale: deve mandare in onda quello che c’è, e quello che c’è è Beverly Hills. Il pubblico adolescente impazzisce, le vendite dei gadget schizzano alle stelle, i mall americani vengono presi d’assalto: a Plantation, Florida, in 7000 accorrono solo per vedere Luke. Lo devono portare via di corsa, perché le persone rischiano di farsi male.

Essere Dylan McKay era una benedizione e una maledizione insieme. «Iniziarono a paragonarlo a James Dean», racconta Margaret Waller, autrice della biografia A Good Bad Boy. E lui quel paragone lo temeva: «Se diventerà troppo forte, finirò per pagare il prezzo del fatto che lui se n’è andato troppo presto».

Intanto rivediamo qualche spezzone di Beverly Hills, come l’incontro tra Dylan e Jason in quel primo, mitico episodio.
“Mi chiamo Brandon Walsh”.
“Scozzese o irlandese?”.
“Entrambi in realtà, passando dal Minnesota”.

E poi la cover di Rolling Stone – «La sera prima avevamo fatto baldoria, Shannen [Doherty] invece era splendida» – Luke che voleva anche quella di Vanity Fair, da solo: «Credo che avesse capito che fosse importante far capire al mondo che era molto di più che Dylan McKay». Dopo cinque stagioni, Perry decide di lasciare Beverly Hills. E sarà proprio Priestley a dirigere il suo ultimo episodio: «Il suo addio era difficile da accettare, per me era un fratello, ma capivo perché volesse lasciare la serie, aveva una grande energia creativa dentro di sé, voleva fare di più, molto di più».

Luke acquista i diritti di Otto secondi di gloria, sul campione di rodeo Lane Frost, e nel film vuole anche Stephen Baldwin: «Abbiamo fatto bungee jumping ogni mattina per sette giorni prima di andare sul set, eravamo carichi di adrenalina, pronti a cavalcare quei tori. Luke era un cowboy, a modo suo». E ancora: «Aveva qualcosa di Paul Newman e anche di Robert Redford, ma per me era più simile a James Dean perché James Dean riusciva a diventare ancora più affascinante quando mostrava il suo lato sensibile e Luke aveva imparato a fare lo stesso come attore, il che non è facile quando sei così bello». Poi Crocevia per l’inferno di John McNaughton: Perry conquista regista e produttore che non avevano mai visto un episodio di 90210. «Adesso capite quanto ho dovuto lavorare per farvi dimenticare la tv?». Nel mezzo (dico io) c’è pure l’apparizione in Vacanze di Natale ’95 di Neri Parenti (no, nel doc non c’è, ahahahah).

Jason Priestley del doc. Foto: Sky

Quando arriva Oz, è la consacrazione adulta nei panni del reverendo Jeremiah Cloutier, il leader dei detenuti cristiani evangelici nella prigione di Emerald City. «Le comparse non sapevano che Luke Perry sarebbe entrato nel cast. Arriva e, mentre va verso le docce, lascia cadere l’asciugamano che ha in vita rimanendo nudo», ricorda Dean Winters. «Tutti iniziano ad applaudire, con quel gesto così estremo è come se avesse detto: “Io sono esattamente come voi”. Da quel momento l’hanno trattato come uno di famiglia». Poco dopo Winters lo trova sul tetto a piangere mentre guarda il tramonto: «Mi ha confessato: “È da quando sono diventato attore che aspetto un momento come questo”».

Nel 2002 Jason fa un brutto incidente durante una corsa in macchina in Kentucky: «La prima persona che è venuta a trovarmi in ospedale è stata Luke». Dice Perry: «Il mio rapporto con Jason è diverso da quello che ho avuto con chiunque qui altro, non è un fratello, non è un parente, non è qualcosa di definibile. Sappiamo solo che è così e ci sta bene, è una persona da avere accanto».

Negli anni 2000 Perry scrive soggetti di notte sugli aerei, interpreta giudici itineranti per Hallmark, vive in Tennessee, coltiva la terra, cresce i suoi due figli scegliendo ruoli che non lo tengano lontano da loro. Sul set di Riverdale fa da mentore ai ragazzi: «Le vostre vite stanno per cambiare», dice. «Un giorno capirete perché».

E poi arriva IL CINEMA, aka Tarantino. Persino Leonardo DiCaprio è intimidito da lui: «Quando ero adolescente lui era l’incarnazione del nuovo James Dean in tv e a quel tempo erano tutti pazzi di lui. Ma poi abbiamo iniziato a parlare di Los Angeles, degli anni ’90, di carriere, di vita. E mi sono reso conto di quanto fosse gentile e incredibilmente generoso come essere umano». Olyphant ricorda: «Quentin fa sempre due riprese, ma per quella scena ne ha voluta fare un’altra. Gli chiedono: “Perché?”. “Perché amiamo fare cinema!”. Luke ha sollevato la manica del suo completo celeste, aveva la pelle d’oca».

Il 4 marzo 2019 Perry muore a 52 anni, una settimana dopo un grave ictus. Priestley ricorda la telefonata: «Ero in cucina, mi chiama Jennie (Garth, aka Kelly Taylor). Pensavo si sarebbe ripreso». E l’ultima voce è quella di Luke, registrata anni prima, epilogo limpido e inevitabile: «Non voglio passare senza lasciare il segno. Non voglio che la mia vita mi scorra addosso. Voglio esserne il protagonista». Lo è stato. E continua a esserlo.