Buona la prima: i migliori esordi alla regia degli attori | Rolling Stone Italia
Cinema & TV

Buona la prima: i migliori esordi alla regia degli attori

Per l'uscita di 'Falling – Storia di un padre' di Viggo Mortensen (dal 26 agosto al cinema) e in attesa di 'The Lost Daughter' di Maggie Gyllenhaal (in concorso a Venezia 78) ne abbiamo raccolti un po'

Buona la prima: i migliori esordi alla regia degli attori

Viggo Mortensen sul set di 'Falling'

Foto: BIM

In principio fu Quarto potere (1941), che non troverete in questo articolo perché è sì l’opera prima di Orson Welles, ma è anche IL film (vedi pure Mank di David Fincher sul tema). Poi, avanti veloce, arrivò La morte corre sul fiume (1955), debutto alla regia di Charles Laughton. L’attore inglese premio Oscar (per Le sei mogli di Enrico VIII) girò il suo primo e unicissimo – in tutti i sensi – lungometraggio a 56 anni: un southern gothic noir con una performance indelebile di Robert Mitchum, che al tempo non venne accolto per il classico che poi è diventato, scoraggiando l’autore dal girarne altri. Ma la storia del cinema è piena di esordi alla regia di attori popolari. Gli ultimi in ordine di tempo sono Viggo Mortensen con il drammone familiare Falling – Storia di un padre (al cinema dal 26 agosto) e Maggie Gyllenhaal con The Lost Daughter (tratto da Elena Ferrante e con Olivia Colman e Dakota Johnson), in concorso a Venezia 78. Ecco i migliori debutti di interpreti dietro la macchina da presa.

La prima volta di Jennifer (1968) di Paul Newman

Nel decennio della vera e propria consacrazione nella A-list di attori hollywoodiani, Newman debutta alla regia. E lo fa con una bella storia al femminile (brutta versione italiana del titolo a parte, l’originale è Rachel, Rachel) starring una gigantesca Joanne Woodward, sua moglie dopo La lunga estate calda e fino alla morte di lui nel 2008. Il film canta la vita ordinaria in una piccola cittadina di un’insegnante zitella 35enne timida, repressa e vessata dalla madre anziana. Ma soprattutto il suo risveglio sessuale. Senso evocativo del luogo, grande sensibilità di Newman dietro la macchina da presa e una performance sublime di Woodward. Nominato a quattro Oscar.

Easy Rider – Libertà e paura (1969) di Dennis Hopper

«Non è mai stato un film sulle moto per me», aveva dichiarato Dennis Hopper. «In gran parte riguardava quello che stava succedendo nel Paese». Il road movie manifesto della controcultura usciva il 14 luglio 1969. Il giorno della Bastiglia, ma nell’anno del sogno di Woodstock e dell’incubo di Altamont. Nulla sarebbe più stato come prima, per il cinema e per l’America. Hopper era il simbolo dell’idealismo perduto al centro del film, indie prima che indie volesse dire qualcosa (e poi di nuovo nulla) e prodotto dallo stesso Peter Fonda (che pagava vitto e alloggio alla crew con la sua carta di credito). Parlava finalmente il linguaggio delle nuove generazioni e inaugurava, con una certa incredulità della major, la New Hollywood. Easy Rider fu premiato a Cannes come miglior opera prima e nominato a due Oscar: miglior attore non protagonista (Jack Nicholson) e migliore sceneggiatura originale. Ah, il copione veniva improvvisato giorno per giorno sul set.

Brivido nella notte (1971) di Clint Eastwood

Primo dei circa 40 film che la leggenda di Hollywood avrebbe diretto nella sua carriera, con la regia che piano piano (soprattutto negli anni 2000) prendeva il sopravvento sul mestiere d’attore. Brivido nella notte è un thrillerone psicologico scritto e girato benissimo: tutto contribuisce all’escalation di terrore e tutto il terrore gira attorno a lei, Jessica Walter aka Evelyn, la stalker del disc jockey interpretato dallo stesso Clint. È la sua imprevedibilità a creare la suspense e la snervante efficacia di Walter a stordirci fino al gran finale. E se le doti espressive di Eastwood erano discusse ai tempi, qui Clint dimostra anche di aver capito perfettamente come autodirigersi e tirare fuori una forza quasi passiva dal suo personaggio. Il resto è storia. Fateci vedere subito Cry Macho e nessuno si farà male.

Yentl (1973) di Barbra Streisand

Dopo aver comprato i diritti della storia di Isaac Bashevis Singer ed essersi sentita dire da mezza Hollywood che era pazza (nel voler dirigere, co-sceneggiare, co-produrre e soprattutto interpretare lei, ormai quarantenne, una ragazzina ebrea di 17 anni che si traveste da maschio), ci ha messo dieci anni Barbra a fare Yentl. Un sogno che si concretizza per lei, senza dubbio anche un vanity project, ma pure un titolo che ha fatto la storia del musical. Non è un film perfetto, ma la parte centrale e le musiche di Michel Legrand (premiate con l’Oscar: pensate solo a Papa, Can You Hear Me? e The Way He Makes Me Feel) sono clamorose. E Yentl riesce a essere una divertente, delicata e allo stesso tempo implacabile riflessione sul ruolo delle convenzioni sociali. Ah, Barbra è stata la prima donna ad aver vinto un Golden Globe per la regia.

Gente comune (1980) di Robert Redford

Il problema di Gente comune è che verrà per sempre ricordato come il film che nel 1980 ha “rubato” gli Oscar per Best Picture e Best Director a Toro scatenato di Martin Scorsese. E, ovviamente, ci sta. Ma il debutto alla regia di Sundance Kid è comunque una riflessione sulla buona borghesia americana (sceneggiata da Alvin Sargent sul romanzo Gente senza storia di Judith Guest) con un super cast: Donald Sutherland e Mary Tyler Moore interpretano i genitori di una ricca famiglia di Chicago distrutti dalla morte di un figlio in un incidente e dal tentativo di suicidio dell’altro (Timothy Hutton in versione ragazzo interrotto), in cura da uno psichiatra (Judd Hirsch). Cinque Golden Globe, quattro premi Oscar e uno dei migliori incassi dell’annata per un film che aprirà all’Academy il filone dei drammoni familiari.

Balla coi lupi (1990) di Kevin Costner

Fin da quando ha recitato in Silverado, Costner ha sempre avuto un debole per i western (vedi anche il suo ultimo ruolo più azzeccato, quello dello spietato proprietario del ranch più grande del Montana nella serie Yellowstone). E Balla coi lupi è un western proprio nel momento in cui si diceva il che genere fosse morto (e quindi prima della moda di bollare come western “metropolitano, contemporaneo, vattelappesca” qualunque cosa). Di più: Balla coi lupi è un’ucronia (pure qui, prima che la parola diventasse cool): immagina un mondo in cui i bianchi erano interessati a conoscere la cultura dei nativi americani. Ha l’epica di John Ford, come scrive Roger Ebert, ma allo stesso tempo fa quasi ammenda per i centinaia di film che lo hanno preceduto, entrando finalmente nei villaggi dei Sioux e osservando il loro linguaggio e la loro armonia con la natura. Una storia semplice ma raccontata magnificamente e con una struttura visiva impressionante, il trionfo di Costner confermato da sette Oscar.

Giovani, carini e disoccupati (1994) di Ben Stiller

Prendi due preferiti degli anni ’90, Winona Ryder e Ethan Hawke, autentici e fighissimi senza il minimo sforzo. Trasforma il passaggio all’età adulta della Generazione X in una commedia nera. Aggiungici un tocco di grunge diffuso tra colonna sonora, look e filosofia dei protagonisti. Ben Stiller ci ha visto lungo, anche se gli Studios non volevano finanziarlo fino al sì di Winona. Poi sarebbero arrivati Zoolander, Tropic Thunder e pure l’ottima miniserie Escape at Dannemora. Ma la carriera di regista di Stiller parte da questo cult, che è pure troppo intelligente per definirsi un manifesto. E così fa tutto giusto.

Confessioni di una mente pericolosa (2002) di George Clooney

A inizio anni 2000, George decide di dimostrare che ha la stoffa del regista. E ci riesce alla grande. Certo, c’è un nonsoché di Soderbergh nel gusto e nello stile, il film è scritto da un certo Charlie Kaufman e il protagonista è interpretato da uno straordinario Sam Rockwell (che da qui inizia la scalata alla crème hollywoodiana). Ma tant’è. Clooney trasforma la storia di Chuck Barris, popolare produttore tv che sosteneva di essere anche un agente segreto della CIA, per cui avrebbe ucciso oltre 30 persone, in un’affascinante ed esilarante dramedy che cattura e intriga. Poi sul versante registico ci sarebbero stati Good Night, and Good Luck. e Le Idi di marzo (e la miniserie Catch-22). Il resto, ehm.

Away From Her – Lontano da lei (2006) di Sarah Polley

Attrice bambina (diretta tra gli altri da Terry Gilliam, Atom Egoyan e Kathryn Bigelow), forse il suo ruolo più celebre (e anche più lontano dal panorama indie in cui si muoveva, dopo aver pure rifiutato la parte di Penny Lane in Almost Famous – Quasi famosi) è quello in L’alba dei morti viventi di Zack Snyder. Il suo debutto alla regia è un adattamento del racconto di Alice Munro The Bear Came Over the Mountain, con Julie Christie e Gordon Pinsent nei panni di una coppia di anziani il cui matrimonio viene messo alla prova quando lei inizia a soffrire di Alzheimer. È un’opera prima matura e terribilmente straziante, nominata a due Oscar, tra cui miglior sceneggiatura non originale e miglior attrice per Christie. È nata un’autrice, il suo film successivo Take This Waltz e il documentario Stories We Tell lo avrebbero confermato.

Gone Baby Gone (2007) di Ben Affleck

La regia è stata probabilmente una delle ancora di salvezza di Ben Affleck durante il suo periodo peggiore (ora invece se la passa benone, citofonare J.Lo). Starring il fratello Casey (che molti malignamente indicano come “quello bravo a recitare”) e Michelle Monaghan nei panni di una coppia (anche nella vita) di detective bostoniani che indaga sulla scomparsa di una bambina, con tutto il circo mediatico e moralmente infimo che ne consegue. Completano il quadro, basato sul bestseller di Dennis Lehane, Morgan Freeman e Amy Ryan. Performance ottime a parte, Ben riesce a creare l’atmosfera dark e il tono ambiguo perfetti. Seguono The Town e Argo, Oscar al miglior film sull’operazione di Stati Uniti e Canada per risolvere la crisi degli ostaggi americani in Iran dopo la rivoluzione del ’79. E pure La legge della notte, che però fu un flop. Aspettiamo di vederlo a Venezia in The Last Duel di Ridley Scott, di cui ha pure scritto la sceneggiatura con il “solito” Matt Damon.

Facciamola finita – This Is the End (2013) di Seth Rogen e Evan Goldberg

Commedia apocalittica (e cazzona, of course) con mezza Hollywood nel ruolo di se stessa a una festa a casa di James Franco (c’è pure un cameo di Rihanna), mentre la fine del mondo si avvicina. Anche se molti, strafatti di erba e ubriachissimi, non ci credono. Chiaramente Facciamola finita è il terreno di gioco della confraternita hollywoodiana costituita da Rogen, Goldberg, Jonah Hill, Franco (prima dello scandalo MeToo), ecc. Ma il bello è che non ha mai paura di sfottere i personaggi reali con battute e insulti che colpiscono durissimo. E sono quasi sempre molto divertenti.

Scappa – Get Out (2017) di Jordan Peele

Jordan Peele (già attore comico del duo Key and Peele) è colui che ha cambiato faccia all’horror mainstream, dando nuova linfa al sottogenere dell’horror sociale pre-Black Lives Matter. In Scappa – Get Out (con cui ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale) prende l’impianto del classico Indovina chi viene a cena? e trasforma il tutto in un incubo per il fotografo nero Chris Washington (interpretato da Daniel Kaluuya), che deve incontrare il genitori della fidanzata (Allison Williams) paradigma del privilegio bianco. Tensione razziale e genio satirico s’incrociano in una pellicola inquietante, che racconta di un suprematismo mai sepolto. Poi c’è stato Noi – Us e presto arriverà Candyman, da lui prodotto. E Peele continua a produrre parecchio, dal nuovo The Twilight Zone alla serie Lovecraft Country.

A Star Is Born (2018) di Bradley Cooper

«Rifare A Star Is Born è stata una pessima idea», ha tuonato qualche giorno fa Barbra. Sì, di nuovo lei. «Non mi interessa il successo, quanto l’originalità». Perché, se parliamo del primo, l’esordio alla regia di Bradley Cooper è stato una hit assoluta. Se invece guardiamo alla seconda, certo, è la quarta volta che viene messa in scena (rivista e riadattata) la storia by William A. Wellman del 1937. Ma chissenefrega: Cooper (Mister Una notte da leoni, ma pure il preferito di David O. Russell e di Clint) ha centrato tutto, a partire dalla scelta di Lady Gaga, qui in un fulminante debutto al cinema; le musiche, affidate a lei & Co. (Shallow, che avrete sentito – e cantato – ovunque per almeno un paio d’anni ormai, ha vinto l’Oscar come miglior canzone originale); il personaggio che interpreta, il rocker consumato (e fighissimo) Jackson Maine, per il quale sfoggia pure una voce notevole. Il resto lo fa la chimica con Gaga, tanto che si era rumoreggiato selvaggiamente anche di una love story. E invece i due hanno soltanto recitato da paura. Pazzesco, eh? 🙂 A Bradley devono piacere le sfide: il prossimo progetto da regista sarà un biopic sul grande compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein.

Altre notizie su:  Maggie Gyllenhaal Viggo Mortensen