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Sarà l’anno di Carey? Pare di sì, anche se non ha vinto né Golden Globe né SAG Award, e non è stata nemmeno candidata ai “suoi” Bafta (“suoi” perché è inglesissima). Ma la statuetta pare scontata: il turn da protagonista di drammi (spesso) in costume a lady vendetta dell’epoca MeToo ha gasato i critici USA. La performance c’è, il messaggio pure: i giurati paiono conquistati.
Con già due Oscar all’attivo (per Fargo e Tre manifesti a Ebbing, Missouri), pare difficile che Frances possa strappare il terzo. Anche se senza di lei non potrebbe esistere Nomadland, il titolo che si candida a sbancare gli Academy Award dell’era pandemica. La sua Fern è un’antieroina contemporanea custom-made: una signora dello schermo, che meriterebbe sempre tutto.
Già Coppa Volpi a Venezia 77, la fu principessa Margaret di The Crown è la rivelazione cinematografica della stagione. O meglio: il tour de force che le consegna Kornél Mundruczó è la sua (meritatissima) consacrazione. Basterebbe il parto in piano sequenza iniziale, da togliere il fiato; ma non levi mai gli occhi dalla sua magnetica presenza nemmeno per il resto del film. L’Oscar quest’anno dovrebbe essere suo: punto.
Altro giro, altra attrice già oscarizzata in passato (come non protagonista per Barriere di Denzel Washington). Viola Davis si prende la scena nei panni di questa “mama blues” debordante e col trucco che cola. Una prova “totale” da applausi, anche se a volte tende a strafare. E per il film pare già destinato a vincere il compianto Chadwick Boseman, spalla che gioca (giustamente) in sottrazione.
Foto: David Lee/Netflix
L’outsider dell’annata è questa cantante alla sua prima esperienza “vera” sullo schermo. E che esperienza: rifare nientemeno che Billie Holiday, tra estasi jazz e tormento tossico. Nonostante la mano del regista Lee Daniels sia (come sempre) pesantuccia, lei centra il ritratto: e non era mica facile. Non vincerà, ma è nata un’attrice. Tanto le basta, a ’sto giro.
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