'Who's Next', la recensione originale del capolavoro degli Who | Rolling Stone Italia
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‘Who’s Next’, la recensione originale del capolavoro degli Who

Il 14 agosto 1971 la band di Pete Townshend pubblicava l'album di 'Baba O'Riley'. Ecco cosa scriveva Rolling Stone: «È pieno di cose di cui stupirsi e deliziarsi, uno dei dischi rock meglio registrati degli ultimi tempi»

‘Who’s Next’, la recensione originale del capolavoro degli Who

Un dettaglio della copertina di 'Who's Next'

Nonostante si sia portati a credere il contrario, Who’s Next non è né la colonna sonora della realizzazione dell’apparentemente naufragato sogno hollywoodiano di Pete Townshend, non il più grande live album della storia e nemmeno una (brividi) opera rock. È invece un LP vecchio stile, contenente del rock’n’roll intelligente, eseguito e prodotto in modo superbo, a tratti anche entusiasmante. Detto questo, divagherò…

Se non siete un ragazzino sotto narcotici, che adora tutto ciò che è heavy e che ha scoperto, sulla scia del chiacchiericcio che ha accompagnato l’uscita degli ultimi due album, che a un ascolto sommario gli Who assomigliano ai Led Zeppelin, e che quindi devono essere proprio forti, ma siete invece un loro fan di vecchia data, avrete sicuramente notato come nel corso degli ultimi due tour gli spettacoli del gruppo, seppur ancora sgargianti, si sono leggermente ridimensionati.

La cosa più evidente è l’abbandono dell’eleganza dandy con cui si erano presentati la prima volta, in favore di un abbigliamento comodo e funzionale, grazie al quale è più facile scatenarsi. Negli ultimi tempi sembra abbiano tentato di completare a vicenda la propria presenza scenica, dopo che, in passato, ognuno di loro si è sforzato con caparbietà maniacale di focalizzare l’attenzione dell’intero pubblico su di sé: John Entwistle, per esempio, ha ammesso che suonare il basso per gli Who non lo annoia quasi più come un tempo, e che di recente ha cominciato a fingere di annoiarsi, ritenendo che sia scenicamente più bello suonare standosene immobile.

Soprattutto Townshend, il cui bisogno quasi psicotico di maltrattare il pubblico lo spingeva a martoriare la chitarra alla fine di ogni performance, ha abbandonato tale strategia di sfogo condiviso a favore di climax più sani e sicuri, durante i quali improvvisa tanto a lungo che addirittura un tossico finirebbe in coma.

Ho l’impressione che tali cambiamenti derivino dalla necessità di dimostrarsi artisti seri, invece che teppistelli, di rendersi un po’ più accessibili e un po’ meno offensivi. La stessa ossessione ha ridotto i loro spettacoli a una pallida imitazione di ciò che erano una volta e ha portato gli Who a ripulire i propri album, al punto di arrivare fin troppo vicini alla sterilità. È testimonianza monumentale della loro grandezza, dunque, che gran parte di Next (il primo album in studio dopo che tanti hanno deciso che Tommy è un’opera geniale) trascenda ogni calcolo e sia entusiasmante.

Va tenuto presente, naturalmente, che una fase incentrata sulla tecnica a scapito di una espressione emotiva più spontanea era inevitabile per gli Who, per tutta una serie di ragioni. Innanzitutto, devono essersi proprio stufati di quanti li liquidano frettolosamente come una band con trovate sceniche fantastiche, ma dalla competenza musicale elementare. In più, Townshend ha senz’altro atteso con l’acquolina in bocca il momento in cui avrebbe potuto prodursi in autonomia, considerato il lavoro atroce svolto da Shel Talmy e da altri produttori della prima ora. Inoltre, dopo che negli ultimi anni tutta una serie di personaggi, dai Led Zeppelin ad Alice Cooper, hanno sfruttato i loro insegnamenti, è normale che gli Who abbiano voluto fare una dichiarazione stilistica precisa.

Con Next ci sono riusciti. La musicalità è indiscutibilmente eccellente, con Keith Moon che pesta più preciso che mai su disco, Entwistle che inventa deliziosi abbellimenti ritmici e melodici di ogni tipo (ascoltate soprattutto quel che suona sotto il ritornello di Won’t Get Fooled Again), e Townshend che suona con efficacia e gusto esemplari, sia che si tratti di una corposa ritmica acustica, o di fragorosi, mostruosi accordi, o di assoli lirici e articolati.

Won't Get Fooled Again

Per quanto riguarda la produzione dell’album, Townshend, assistito con competenza da Glyn Johns nel duplice ruolo di ingegnere del suono e coproduttore, ha realizzato uno dei dischi rock meglio registrati degli ultimi tempi. Che un sound tanto accurato rappresenti gli Who è, ormai, una considerazione meno importante rispetto alla curiosità soddisfatta dalla band circa la possibilità di registrarsi con un suono ugualmente nitido a quello dei Thunderclap Newman.

E con la versione estesa di Won’t Get Fooled Again, una bella panoramica dell’aggressività a cui si sono affezionati nel corso degli anni, sono riusciti a incidere un esaustivo manuale d’introduzione al Who-style di base. E che dinamica! I momenti bellissimi, pacatamente lirici, di tracce come The Song Is Over, Gettin’ In Tune, e Behind Blue Eyes, sono abbinati a un rock potente, il midollo di queste canzoni, che le rende ancora più intense.

A suggellare il tutto, Townshend cava dai sintetizzatori un valore ben più alto delle 14 mila sterline che valgono rendendo, oserei dire, più avventuroso e meglio integrato l’utilizzo di questi strumenti, superiore a quello di qualunque altro sperimentatore rock che lo ha preceduto.

In Baba O’Riley, per esempio, prepara il terreno per l’entrata a effetto del gruppo con una parte di VCS3 preregistrata, ottenuta programmando alcuni suoi dati fisici in un computer collegato al sintetizzatore; dopodiché trasforma la parte in un drone, mentre i due accordi della canzone si sovrappongono; successivamente si contrappone la band (stratificando accordi giganteschi, mentre prosegue il meepmeep-meep-meep-meep-meep-meep-meep…), fino ad arrivare a un assolo di Dave Arbus, violinista ospite.

Poi, su Bargain, utilizza l’ARP come strumento solista e anche come sottofondo per il suo meraviglioso assolo di chitarra.

C’è talmente tanto di cui stupirsi e deliziarsi in questo disco, una volta abituatisi alla sua perfezione pressoché chirurgica… C’è Roger Daltrey che canta “And I’m gonna ‘chune’ right in on you” durante Gettin’ In Tune, in maniera tanto meravigliosa da allontanare i pensieri dell’ascoltatore dalle implicazioni, forse spiacevoli, del fatto che “la retta via” è proprio ciò su cui si sono sintonizzati. C’è Daltrey a conferire un’eccellente teatralità (si noti soprattutto il modo in cui intona la parola “vengeance”, vendetta) a un testo interessante, che si combina alle più belle armonie di sempre degli Who, su Behind Blue Eyes.

C’è My Wife di Entwistle, brano meravigliosamente orecchiabile e frivolo, che affronta il pericolo di essere sposati e contemporaneamente dediti all’alzare il gomito fino tarda notte (peccato che la voce piacevolmente nasale di The Ox venga sotterrata dagli strumenti: «Può essere che Townshend sia geloso?», vi starete sicuramente chiedendo).

Infine, c’è The Song Is Over, una delle poche tracce sopravvissute al recente naufragio del progetto Bobby e finite su Next. È un brano di indubbia bellezza dove Townshend canta squisitamente, su un delicato sottofondo di pianoforte, precedendo e alternandosi a Daltrey che si fomenta in modo trascinante su uno stacco robusto, con cambi di accordi mozzafiato, alla maniera del refrain “Listening to you I hear the music…” di Tommy. Sicuramente sul podio dei loro momenti migliori, con Rael, Pinball Wizard e I’m the Face.

E, tanto per mettere in chiaro con i cretini di Radiolandia che questo è un semplice LP vecchio stampo, ci sono un paio di riempitivi: Love Ain’t For Keeping, carina ma trascurabile (di certo non merita di seguire Heaven and Hell, che apre i concerti del gruppo, a meno che dal vivo non la suonino il triplo più forte rispetto alla versione su disco), e la fiacca Goin’ Mobile, che celebra le gioie di, ehm, vagare liberamente per le highways e le strade secondarie a bordo della propria roulotte.

Ed ecco a voi, amici, un album che, nonostante una sobria metodicità (che si sarebbe rivelata fatale per un gruppo minore), si colloca insieme a quelli di David Bowie, Black Oak Arkansas, Crazy Horse, Procol Harum, Alice Cooper e Christopher Milk, tra i più belli del 1971. Considerato che Pete ha ricominciato a distruggere la chitarra alla fine delle esibizioni, e il fatto che abbiano superato, si spera, le ansie legate alla tecnica, è del tutto ragionevole supporre che i prossimi album degli Who non saranno da meno.

Questa recensione è stata pubblicata su Rolling Stone US il 2 settembre 1971.

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