6 star della musica protagoniste di videogame | Rolling Stone Italia
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6 star della musica protagoniste di videogame

Alcune star della musica non hanno proprio saputo resistere al fascino dei videogiochi. Per fortuna, o purtroppo?

6 star della musica protagoniste di videogame

Il genere dei rhythm game non ha risparmiato nessuno, da artisti semisconosciuti a leggende della musica.

La musica è una parte importante di un videogioco. Può contribuire a creare atmosfera e aiutare a convogliare emozioni, sottolineando gli stati d’animo dei personaggi e le situazioni che si susseguono su schermo. Ma cosa succede quando delle rockstar affermate non vogliono occuparsi della colonna sonora, ma si trasformano in protagonisti o in ispiratori di un videogioco? Di tutto, può succedere davvero di tutto, come potete leggere di seguito. Nel creare questo elenco di stranezze e curiosità, abbiamo volutamente evitato tutti i rhythm game con strumenti musicali (ad esempio i vari episodi di Rock Band e Guitar Hero dedicati a AC/DC, Beatles, Green Day, Metallica e Van Halen). Sarebbe stato sin troppo banale inserirli, noi eravamo alla ricerca di titoli più stravaganti. Di rarità, e di clamorosi tonfi commerciali.

Paul McCartney

Sbagliare. Fallire. Toppare. Succede nella vita di tutti i giorni. Succede alle persone comuni. Succede anche alle star più affermate. A vere e proprie leggende. Come Paul McCartney. L’anno è il 1984, e nei cinema di tutto il mondo viene proiettato Give My Regards To Broad Street. Il film è scritto, interpretato e prodotto dal buon Paul. Ed è anche una schifezza di proporzioni galattiche. Un’accozzaglia di scene senza capo né coda, che neanche la spettacolare colonna sonora (un mix tra canzoni soliste e pezzi dei Beatles) riesce a rendere sopportabile. Per non farsi mancare nulla, McCartney decide anche di concedere in licenza il suo “capolavoro” a una piccola software house, per realizzarne un videogioco. Il risultato, se possibile, è anche più drammatico rispetto al film. I possessori di C64 e ZX Spectrum hanno la (s)fortuna di poter guidare Paul in un viaggio che lo conduce tra le strade semideserte di Londra. Una serie di spostamenti in macchina, da una fermata della metropolitana all’altra, con l’obiettivo di intercettare alcuni amici (gente da poco come Ringo Starr, Linda McCartney e George Martin) per poter registrare nuovamente una porzione di No More Lonely Nights. Tremendo nella struttura di gioco, ridotto ai minimi termini a livello grafico, è un vero incubo divenuto realtà. Su Commodore 64, perla finale, la colonna sonora è costituita da una versione ripetuta all’infinito di Band On The Run. È una cosa positiva? No, visto che ci abbiamo impiegato qualche minuto per riconoscerla…

Meglio dimenticare film e videogioco e concentrarsi solamente sulla colonna sonora.

Frankie Goes To Hollywood

Relax, Two Tribes, The Power of Love. Un trittico di successi che, nella prima metà degli anni ’80, ha portato alla ribalta i Frankie Goes To Hollywood. Un primo album, Welcome To The Pleasuredome, dalle sonorità interessanti, un seguito (Liverpool) decisamente meno riuscito, gli immancabili scazzi di gruppo, i litigi, i saluti e poi i titoli di coda. Una carriera relativamente breve, nella quale c’è stato però spazio anche per un videogioco. Lanciato nel 1985 dalla Ocean per Commodore 64, Amstrad e ZX Spectrum, Frankie Goes To Hollywood (i creativi non si devono essere sprecati molto per trovare il titolo) è un gioco che, clamorosamente, presenta qualche spunto degno di nota. Si tratta di un’avventura che si sviluppa su più piani, con un omicidio da risolvere e tutta una serie di mini giochi che consentono di aumentare il livello di quattro aspetti della personalità del protagonista: piacere, guerra, amore e fede. Il raggiungimento del 100%  in questi quattro attributi permette di accedere al Pleasure Dome e vedere i titoli di coda. Una struttura non lineare, sequenze di esplorazione (semplici, è bene dirlo) e sezioni sparatutto si susseguono per dare vita a un’esperienza a tratti caotica, a tratti confusionaria, ma tutto sommato interessante. Una curiosità da provare. La presenza della band aleggia in alcune scelte stilistiche e nella colonna sonora, che deve comunque fare i conti con le limitazioni tecniche dei computer dell’epoca.

Adesso può sembrare solo una curiosa antichità, ma al tempo Frankie Goes To Hollywood presentava alcune soluzioni innovative.

Spice Girls

31 maggio 1998. Geri Halliwell annuncia ufficialmente di aver lasciato le Spice Girls. Una mazzata non da poco per i fan. 16 giugno 1998. Esce Spice World per PlayStation. Una seconda mazzata, magari non potente come la prima, ma comunque ben assestata. Il concept alla base del gioco sviluppato da Pysgnosis potrebbe anche essere simpatico (remixare alcuni brani e creare coreografie per una partecipazione a uno show televisivo), il problema è l’esecuzione. Spice World è infatti un titolo sciatto, povero di contenuti, pensato e realizzato con il solo obiettivo di monetizzare sulla fama delle sue protagoniste. Non fa nulla per essere un minimo accattivante, e sono letteralmente sufficienti un paio di ore per vedere tutte le combinazioni possibili e immaginabili. Non che un essere sano di mente, non costretto per qualche motivo, possa considerare l’idea di trascorrere così tanto tempo di fronte a questo obbrobrio. Solo la presenza di alcuni extra, sotto forma di filmati e interviste, evita al disco di diventare un sottobicchiere e lo pone nella categoria “curiosità per fan ricoperta da tre dita di polvere”.

L’inutilità fatta videogioco. Questa potrebbe essere una definizione calzante per Spice World.

Journey

Tra la seconda parte degli anni ’70 e la prima degli anni ’80 i Journey erano una delle band più popolari dell’intero pianeta terra. Guidato dallo stratosferica voce di Steve Perry, il quintetto statunitense vendeva milioni di copie, collezionava un sold out dopo l’altro e… appariva nei videogiochi. Già, plurale. Ben due. Il primo, Journey Escape (1982), è un terribile action game per Atari 2600, in cui i membri della band devono fuggire da fotografi (lo capiamo), promoter (capiamo anche questo) e groupie (questo perché?) e catapultarsi in macchina per dirigersi verso il successivo concerto. Incomprensibile in alcune scelte grafiche e ripetitivo già dopo dieci secondi, è tremendo ai giorni nostri, come lo era allora. Il secondo è un un coin-op (intitolato semplicemente Journey) prodotto da Bally Midway in contemporanea con il tour del 1983. La struttura è tipicamente arcade. Minigiochi semplici e veloci, in cui i singoli componenti della band (con tanto di volto digitalizzato) devono recuperare i propri strumenti prima di salire sul palco. Cinque livelli, tutti accompagnati da un diverso brano della band, a cui se ne aggiunge un sesto in cui il buttafuori di turno è impegnato a fermare i fan impazziti pronti a gettarsi sul palco. Il nostro preferito è sicuramente quello di Jonathan Cain, non fosse altro che per la presenza in sottofondo di Stone In Love.

Non entrerà nella storia dei videogiochi, ma il coin op Journey è quasi dignitoso. Journey Escape è invece senza speranza.

Aerosmith

Reduci dal successo planetario riscosso da Get A Grip, gli Aerosmith hanno trascorso buona parte del 1994 in tour… e in sala giochi! La band di Boston ricopre infatti un ruolo di primo piano in Revolution X coin op prodotto da Midway. Si tratta di uno sparatutto “su binari” (ovvero, in cui l’inquadratura si muove in maniera automatica) ambientato in una realtà alternativa, nel quale l’eroe di turno è impegnato a salvare il mondo dalla minaccia della New Order Nation. Tra membri della band da scovare, incitamenti da parte di Steven Tyler e un accompagnamento musicale di ottimo livello (non che ci fossero dubbi a riguardo) l’azione si sviluppava in maniera estremamente rapida e divertente. Giocato in compagnia, con il controller a forma di mitragliatore, era una vera forza. Purtroppo non si può dire lo stesso per quanto riguarda le conversioni su console. Tutte, nessuna esclusa. Chi più, chi meno, SNES, Mege Drive, PC, Saturn e PlayStation escono largamente sconfitte dal confronto con l’originale, soccombendo in ogni aspetto. Date per scontate le evidenti differenze a livello grafico, i problemi riguardano anche i comandi, decisamente imprecisi. Insomma, per sparare con Tyler, Perry, Whitford, Hamilton e Kramer, meglio stare in piedi in una fumosa sala giochi che seduti su un comodo divano…

 

Il protagonista di Revolution X probabilmente non si chiama Janie, ma è sicuramente armato…

Michael Jackson

Abbiamo già scritto della passione di Michael Jackson per i videogiochi. Passione che lo ha portato a concedere i diritti (e a partecipare attivamente, almeno stando ai titoli di coda) alla realizzazione delle versioni videoludiche di Moowalker. Già, versioni. Al plurale. Sono infatti tre, con differenze più o meno marcate tra loro. La più spettacolare è ovviamente quella da sala giochi, che adotta una struttura tipica dei picchiaduro dell’epoca con un paio di peculiarità. La prima è che Micheal non colpisce mai fisicamente gli avversari, ma utilizza solo attacchi magici. La seconda è che si può giocare fino in tre contemporaneamente. Come riconoscere i tre Michael? Dal colore del vestito, uno bianco classico, un altro blu e l’ultimo nero. Interessanti e abbastanza divertenti anche i due titoli (identici, a parte la qualità grafica) prodotti per Mega Drive e Master System, in cui viene utilizzata una visuale differente e inserita una componente platform. La parte migliore è vedere i nemici (anche alcuni animali) esibirsi in balletti sulle note di Smooth Criminal e Billy Jean. La palma di edizione meno riuscita spetta a quella per computer (Amiga, Amstrad, Atari ST, Commodore 64, PC, MSX e ZX Spectrum). Quattro livelli che, malgrado la presenza di diverse soluzioni stilistiche, mostrano poche idee e scarsa cura nei dettagli.

Micheal balla, usa i suoi poteri magici e salva bambini… questo è Moonwalker.