Valentina Bertini: «I vini naturali? Tu ci usciresti con uno che puzza?» | Rolling Stone Italia
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Valentina Bertini: «I vini naturali? Tu ci usciresti con uno che puzza?»

Il vino naturale è una scusa per chi non sa fare quello buono. E, se si vuole, il pesce può pure andare con il vino rosso. Piccola chiacchiera incendiaria con Valentina Bertini, Corporate Wine Manager del Gruppo Langosteria.

Credits: Mattia Zoppellaro

Credits: Mattia Zoppellaro

«Spesso chi dichiara di fare vino naturale lo dice semplicemente perché gli viene di merda e deve giustificare quelle puzze estreme con un “Eh, però è naturale”. Eh no tesoro mio, il vino naturale non esiste perché il vino è un prodotto dell’uomo, non della natura. La natura è perfetta, l’uomo no. Quindi questo significa che tu non sei in grado di fare il vino. L’enologia italiana, piaccia o non piaccia, ha fatto grandi passi negli ultimi 30, 40 anni, e un motivo c’è. Non è che non usare la solforosa sia un vanto: la solforosa serve per proteggere il vino e chi lo beve, e in ogni caso il vino la sviluppa ugualmente, quindi i vini senza solforosa non esistono».

Non è certo una che le manda a dire, Valentina Bertini: la Corporate Wine Manager del Gruppo Langosteria ha la schiettezza tipica di coloro che si son dovuti far strada da soli, inciampando e rialzandosi, insieme a un’onestà intellettuale che a volte rischia di spiazzare l’interlocutore. Quando le confesso con una punta di vergogna di amare rossi che molti definiscono “ruffiani”, lei è lapidaria: «Il vino nasce per essere condiviso e per il
piacere di berlo: se non riesci a finirlo, significa che c’è un problema. Semplice da bere non implica che sia facile da fare. Raggiungere il punto di bevuta di un vino è un’arte, ma resta il fatto che prima di tutto deve essere una cosa godibile: i vini complicati non piacciono a nessuno, sono leggende metropolitane per chi si deve fare le seghe mentali e s’illude di essere superiore agli altri».

Umbra, classe 1980, una laurea mancata in Giurisprudenza e una gavetta in sala maturata nel ristorante rilevato dalla madre a Spello nel 2000, all’inizio del boom del vino nella regione. Da lì, la decisione di iscriversi a un corso da sommelier: «Mi sono resa subito conto di avere una marcia in più perché avevo memoria del bicchiere. Ho cominciato pian piano ad addentrarmi e a capirne le dinamiche, a studiare le diverse tipologie di bicchiere, di vino, le vinificazioni… in generale tutto mi veniva piuttosto facile». «All’esame venni bocciata perché mi beccarono a suggerire al mio fidanzato, che faceva il corso con me. Mi ricordo che questo iconico presidente di commissione mi apostrofò con un “Signorina, al suo fidanzato dica che RC è Reggio Calabria”, perché lui continuava a chiedermi “Cos’è RC, cos’è RC” (il marchio sullo Champagne che indica il Récoltant-Coopérateur, Nda.). Quindi niente, lui passa e io no. Vado a ridare l’esame il mese dopo e lo supero».

Credits: Mattia Zoppellaro

Credits: Mattia Zoppellaro

Nel 2005 vince il primo concorso indetto da AIS (Associazione Italiana Sommelier) in collaborazione con Bonaventura Maschio; nel 2006 è il turno del Premio Innovazione nella Professione. Tutto procede bene, finché a causa di gravi problemi in famiglia la madre si trova costretta a chiudere il ristorante tra il 2010 e il 2011 e lei vola a New York a fare uno stage. «Una volta ritornata provo a ricominciare a fare il mio lavoro, ma in quel momento nessuno voleva un sommelier donna, si era ancora legati all’idea che il sommelier dovesse essere una figura maschile». Valentina però non si scompone: «Il fatto di essere donna non mi faceva sentire “inferiore” perché mio padre per primo mi ha insegnato a essere libera di essere ciò che voglio, indipendentemente dal sesso con cui sono nata. Mi sono scontrata con il preconcetto altrui, sì, ma quando tu nella tua testa non ce l’hai, il preconcetto non ti tocca».

E il bello è che un lavoro “maschile” – la guardia giurata – lo fa per davvero per un anno «perché non trovavo altro, la mia vita era crollata da un momento all’altro e dovevo provvedere a me stessa e a mia madre». Poi, una serie di fortunati eventi: una sera un amico le propone di provare “questo posto che si chiama Langosteria”, lei accetta «un po’ perplessa, » e – non conoscendo la realtà di Milano se non fuori dal circuito gastronomico degli stellati – si trova di fronte a un altro tipo di ristorazione, il fine dining, che fino ad allora aveva sperimentato solo negli Stati Uniti.

«Appena arrivata in via Savona mi resi conto che la carta dei vini era molto ricca e particolare per un ristorante milanese non stellato: nella mia testa solo insegne come l’Enoteca Pinchiorri potevano avere accesso a determinate bottiglie, così lasciai un biglietto con nome, cognome e numero di telefono. Qualche giorno dopo venni chiamata e lì iniziò la mia avventura da sommelier in Langosteria». Che dura fino al 2016, quando si sposta all’Hotel Gallia dove rimane come capo sommelier fino al 2019; lo stesso anno viene eletta Sommelier dell’anno dalla Guida ai Ristoranti d’Italia dell’Espresso, prima donna a cui viene riconosciuto il premio.

Credits: Mattia Zoppellaro

Credits: Mattia Zoppellaro

«È stata una svolta non solo per me, ma anche per la guida: la maggior parte dei sommelier veniva dalla ristorazione stellata, mentre io dal ristorante di un hotel che poteva contare sulla consulenza della famiglia Cerea, ma di fatto non annoverava stelle. Il paragone è sempre quello, no? Sembrava che chi lavorava in un fine dining non fosse un vero sommelier, e invece». Intanto, prende forma pure il Bertini-pensiero: «Il sommelier di un ristorante vestito di tutto punto è datato, pesante, noioso. Le persone che devono ostentare master o spillette d’oro appuntate sulla giacca soffrono di un complesso di inferiorità, hanno bisogno che qualcuno gli riconosca quel ruolo. La maggior parte sono delle rotture di coglioni immense che parlano in continuazione senza manco essere stati interpellati. Il sommelier ha un solo compito finale: servire il vino nel bicchiere giusto e nel modo corretto e consigliare – solo se richiesto. Il cliente va ascoltato, non giudicato. Se ti dico che voglio un vino in un determinato modo, tu nella carta dei vini devi essere in grado di propormi qualcosa che gli si avvicina. Non devi scegliere il vino che piace a te. Questo è l’errore che commette almeno l’80% dei sommelier».

Nel 2019 Enrico Buonocore, patron del Gruppo Langosteria, la richiama proponendole di “tornare a casa” con un nuovo ruolo, quello di Wine Manager del Gruppo, «una posizione non facile da ottenere: la maggior parte di quelli che ricoprono un ruolo di beverage manager provengono da lauree in economia perché c’è una grossa parte economica di conteggi, di drink cost che il sommelier in sé e per sé a volte non è chiamato a gestire. Insomma, era un lavoro di più ampio respiro e ho pensato “Ok, proviamoci”: venendo dal liceo classico e detestando la matematica ero spaventata all’idea di rendere il vino un numero. Lì per lì è stato un po’ scioccante, ma poi ci ho preso la mano».

I numeri che al liceo parevano astratti e senza senso prendono ad acquisirlo, e Valentina – con l’aiuto del suo team di sommelier – negli anni costruisce una carta che lei stessa definisce «trasgressiva, fuori dagli schemi, alta ma non saccente». «Leggere una carta dei vini che contiene un po’ di storia, un po’ di adv, un po’ di immagini è diverso da leggerne una che sembra la Bibbia o il Codice di Diritto Penale. Per non parlare di quelle carte ordinate per vitigno e non per nome del vino, che mettono il cliente a disagio e lo fanno passare per ignorante. Saccenteria pura».

Credits: Mattia Zoppellaro

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Per sviluppare una carta dei vini appetibile e non respingente, spiega, occorre «capire qual è il posizionamento del ristorante, il suo mercato, la tipologia di clientela e la sua forbice. Ti faccio l’esempio di Langosteria: da noi trovi quello che vuole festeggiare, quello che vuole fare il fenomeno, quello che viene a cena con la fidanzata la prima volta, quello che ha la cena di famiglia, quello che esce con gli amici, quello che è un intenditore di vini. Per questo c’è tanta Francia e tanti vini importanti italiani: abbiamo tutti i vini iconici mondiali, e i collezionisti, così come gli appassionati, sanno che da noi possono trovare una proposta in linea con le loro richieste. La forbice negli anni si è allargata, certo, ma se io mettessi in carta vini estremi “naturali”, che pubblico attirerei?»

E qui torniamo al punto da cui siamo partiti: «credo si stia facendo strada un’idea distorta di “naturale”: il vino naturale non esiste perché non è disciplinato, e nel momento in cui si decide di vendemmiare, si cambia il percorso dell’uva. Esiste il rispetto per il territorio, nel senso che occorre proteggere la vigna più che il processo. Ci sono tante aziende che hanno sempre lavorato in modo “naturale”, quindi salvaguardando il territorio, ma non hanno bisogno di dichiararlo perché non serve. Per me l’intera questione è riducibile a una moda. Se un vino puzza, se sa di pipì, se è torbido e ha dei colori bruttissimi, non ci si può nascondere dietro la giustificazione che è naturale: il vino o lo sai fare o non lo sai fare, punto. Non lo puoi suddividere in naturale e convenzionale».

Non sono soltanto i vini naturali a scaldare Valentina, ma pure gli amati-odiati abbinamenti: «non li ho mai seguiti, non mi piacciono, non li faccio. Sono demodé, noiosi, ridicoli. Perché nove volte su dieci, quando a un sommelier si chiede di fare l’abbinamento col vino, gli si chiede di mortificarlo: deve adattare il vino al piatto e non viceversa. L’unico abbinamento che posso ritenere corretto è quello regionale: un vino di un territorio con il cibo dello stesso territorio. Ma se io decido che oggi voglio bere rosso e sto mangiando il crudo di pesce, io bevo rosso. Quella roba lì per fortuna è sdoganata: il corso da sommelier deve standardizzare e ti dice che tendenzialmente il bianco accompagna i piatti di pesce, ma non c’è l’obbligo, non esiste nessuna regola, altrimenti si perderebbe il piacere».

Per Valentina, d’altronde, esiste una sola regola: non fare sempre e per forza gli alternativi o gli intellettuali col vino. «Per questo non comprendo chi parla di vini piacioni o ruffiani. Tu quando sei al mare hai bisogno di un vino che per berlo ci metti un’ora? Io quando vado a Senigallia voglio bere il Verdicchio perché mi fa estate, perché mi fa freschezza, perché mi mette allegria. Non esistono i vini ruffiani, esistono dei vini che sono più beverini e piacevoli, ma perché magari anche tu sei nel mood giusto della giornata: non tutti i vini vanno bevuti nello stesso momento. Vivono pure loro, pure loro la mattina si svegliano col piede sbagliato. Io sono una che ogni tanto li perdona, nel senso che a posteriori magari mi rendo conto di aver sbagliato il giorno in cui ho aperto una determinata bottiglia. Il vino è come un uomo: nasce, vive, invecchia, ti racconta tutto quello che è stato e muore. Questa è la sua forza».

E se tu fossi un vino, che vino saresti? «Dipende dalle giornate». Oggi? «Un Trebbiano Spoletino». Perché puoi togliere la ragazza dall’Umbria, ma non l’Umbria dalla ragazza.

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