Una cena deliziosa ci salverà la vita? | Rolling Stone Italia
Apocalypse Now

Una cena deliziosa ci salverà la vita?

Dai conigli arrosto annaffiati da Beaujolais di ‘The Last of Us’ al cheeseburger di ‘The Menu’: che si tratti di un’apocalisse zombie o di uno chef psicopatico, l’unico modo per sottrarsi alla morte è il piacere del cibo. E stando così le cose, noi siamo già fottuti

Una cena deliziosa ci salverà la vita?

Murray Bartlett (Frank) e Nick Offerman (Bill) in 'The Last of Us'. Foto: HBO/Sky

Cosa fareste nell’ipotesi in cui un fungo – il Cordyceps – scatenasse un’epidemia globale e tramutasse gli esseri umani in zombie? Intendo, a parte prendervela con i carboidrati (la mutazione è arrivata a noi grazie, o a causa di, farine e zuccheri); a parte pensare a salvarvi il culo; a parte fare di tutto per non venire morsi da chi è stato contagiato e vaga per le strade affamato di carne umana? Detto in altri termini, cosa potrebbe farvi sentire (un po’) meglio durante un’apocalisse zombie, consapevoli che non c’è vaccino, non c’è cura, non c’è scampo, e di fronte a voi esistono due scenari: essere uccisi o condurre un’esistenza di stenti e solitudine?

Nella fantasia survivalista di Craig Mazin e Neil Druckmann, l’unica soluzione per conservare la propria umanità nel bel mezzo di una distopia scandita da paranoia, terrore e assenza di speranze, è il cibo. Cibo preparato con amore – che inutile puntualizzazione! – e cura, servito con altrettanto amore, accompagnato da un ottimo rosso francese. Il terzo episodio di The Last of Us, trasmesso lo scorso 31 gennaio su Sky Atlantic e divenuto nel giro di poco tempo epica televisiva, si prende una pausa da uccisioni, inseguimenti e scenari desolanti per raccontare la storia di Bill (Nick Offerman) e Frank (un Murray Bartlett in splendida forma, talmente splendida da spezzare il cuore).

Murray Bartlett (Frank) e Nick Offerman (Bill) in ‘The Last of Us’. Foto: Sky Atlantic

Bill è un burbero lumberjack che si nasconde nel suo bunker mentre l’infezione si diffonde: riesce a eludere le perquisizioni militari e le deportazioni facendo sua la città di Lincoln, nel Massachusetts, svuotata di tutti gli abitanti. In un Home Depot deserto fa razzia di attrezzi e cavi, passa dall’enoteca per fare scorta di vino e si dota di gas ed elettricità, creando una specie di fortino protetto dove si cucina cene a lume di candela a base di succulente bistecche. Trascorrono quattro anni in relativa pace, finché un giorno Frank si presenta fuori dal recinto elettrico di Bill: sta cercando di raggiungere Boston, i suoi compagni di viaggio sono tutti morti, è stremato e desidera solo un attimo di riposo.

Bill è inizialmente scettico e lo accoglie a malincuore, tra mille resistenze: sotto la camicia di flanella e la folta barba ci sono ancora pietà e compassione, e il nostro si cimenta in un pasto a base di coniglio e verdure, annaffiato da un Beaujolais. Apparecchia la tavola con bicchieri di cristallo e poggia i piatti di fine porcellana su sottopiatti d’oro, presentando la sua creazione a Frank con una piccola piroetta – et voilà. E osservandoli mangiare di gusto, osservando questi due sconosciuti che pure nelle circostanze più abominevoli scelgono di privilegiare il piacere, quasi ci si dimentica dell’inferno che continua a consumarsi là fuori: ciò che resta, e che ha perfettamente senso, è la ferma volontà di entrambi di godere del cibo, della bellezza, delle frivolezze.

Frank non se ne andrà più: lui e Bill costruiranno una bella – be’, considerate le premesse – vita insieme, fatta di una routine scandita da cene (e da bottiglie) deliziose, che li salverà dall’oblio e li allontanerà dall’incubo di una morte incombente. Allo stesso modo, sebbene con le dovute differenze del caso, è un delizioso cheeseburger a salvare Margot (Anya Taylor-Joy) dal gioco al massacro avviato dal pluripremiato chef Julian Slowik (Ralph Fiennes) in The Menu di Mark Mylod. Così come Bill e Frank decidono di non preoccuparsi più di fuggire, ma di fermarsi e riassaporare le gioie di una (finta) normalità, Margot non asseconda il fallimento di un sistema e rimette chiunque – il diabolico Slowik in primis – al proprio posto, ricordando a tutti qual è il ruolo principale del cibo: nutrirci, e darci piacere.

Anya Taylor-Joy in ‘The Menu’. Foto: Searchlight Pictures

Il che mi porta a pormi una domanda piuttosto banale: quand’è che mi sono alzata da tavola soddisfatta, consapevole di non essere stata presa in giro da uno chef? Quante e quali volte sono uscita da un ristorante felice e appagata? Quando il cibo mi ha risollevato l’umore dopo una giornata orrenda, quando ho pensato «non solo ho mangiato bene, ma tornerei domani e rimangerei tutto daccapo», quand’è l’ultima volta che mi sono lasciata stupire da un piatto senza sentirmi perculata? Vado in ordine sparso: da Yotam Ottolenghi, a Londra; da Trippa, a Milano; da Høst, a Copenaghen; da Nusantara, a Ubud; da Sahbi Sahbi, a Marrakech. E ancora, divorando la cotoletta della Trattoria del Nuovo Macello, sempre a Milano; desiderando un bis dei tortellini goccia d’oro dell’Osteria Bottega a Bologna; scarpettando senza ritegno il sugo degli spaghetti alle vongole del Pagliaio a Milano Marittima; spazzolando i tortelli ai porcini della Trattoria Irina a Savigno.

Andando fuori a pranzo o a cena in media tre giorni su sette, l’elenco è scandalosamente corto, sintomo di un malessere diffuso peggio del Cordyceps: mangiamo male spendendo troppo; mangiamo cose che ci dimentichiamo nel giro di un paio d’ore; mangiamo spesso per dovere e non per piacere; mangiamo sentendoci in obbligo di provare il ristorante nuovo di cui si parla tanto, consapevoli che l’esperienza sarà comunque deludente. Mangiamo fotografando piatti elaborati fingendoci fini gastronomi; mangiamo più per farlo sapere agli altri (Instagram, ce l’ho con te) che per noi stessi; mangiamo riducendo il cibo a un mezzo (che conferisce status) e dimenticando il suo fine (il godimento).

E nonostante possa suonare bizzarro che una serie tv e un film m’abbiano portata a riflettere sul valore che negli ultimi anni ho smesso di dare ai pasti che consumo, la mia conclusione è abbastanza univoca e inequivocabile: meno, meglio. La vita, insomma, è troppo breve per una cena scadente nell’ultimo posto à la page: se questo è l’andazzo, allora scelgo un galletto al forno (uno dei miei personali cavalli di battaglia) e una bottiglia di Lagrein, al limite un cheeseburger con patatine fritte di Five Guys. Mica per altro, ma non vorrei mai ritrovarmi nel bel mezzo di un’apocalisse zombie o prigioniera di uno chef squilibrato ed essere miseramente, irrimediabilmente e inevitabilmente fottuta.