Tutto quello che non sappiamo dei funghi | Rolling Stone Italia
«la sfida d’immaginazione di cui abbiamo bisogno»

Tutto quello che non sappiamo dei funghi

Finché è in padella, tutto bene. per il resto, dei funghi sappiamo davvero poco, ed è un problema. Perché potrebbero essere la soluzione a tante questioni di oggi, e di domani

Tutto quello che non sappiamo dei funghi

Foto: Jesse Bauer via Unsplash

Se non ci fosse stata Barbie – anzi no, Ken –, questo sarebbe stato l’anno del fungo. Quello atomico, vero protagonista dell’Oppenheimer di Christopher Nolan, che verso la fine si rivela in un nugolo di dubbi. Non è una forma nuova: i funghi ci accompagnano da sempre, dalle sagre autunnali – rigorosamente fritti, dividendo i palati in chi dice paradiso e chi lamenta la perdita di bosco sulle papille – ad Alice che, nel Paese delle Meraviglie, incontra un fungo che “da un lato la farà crescere, dall’altro rimpicciolire”. O come dimenticare l’Amanita muscaria che infesta il mondo dei Puffi, i funghi che danzano sulle note de Lo Schiaccianoci in Fantasia (1940), il Fungo Magico di Super Mario, il bad trip all’inizio di Midsommar e la scena madre di tutta Twin Peaks.

I funghi, a quanto pare, ci piacciono parecchio. Alcuni preferiscono Re Porcino, altri i misteriosi finferli; qualcuno parteggia per il bistrattato champignon, qualcun altro si muove con disinvoltura tra le foreste di pioppini. Poi ci sono quelli che passerebbero le giornate a dirimere le differenze tra cremini, Portobello e prataioli. L’amico vegano, invece, ormai mangia solo Orecchioni (e non ha tutti i torti).

Ci riempiamo la bocca di funghi, masticando e a parole. La verità, però, è che di funghi non sappiamo proprio niente; che non ammontano a “verdura”, quindi basta barare sulle porzioni giornaliere; e che, nonostante The Last of Us abbia prodotto paure consistenti e decisamente pop, è più probabile che un fungo ci salvi, più che distrugga.

Lo spiega bene un libro andato bestseller l’anno scorso (vendere parlando di funghi, pensiero stupendo), che ha contribuito a creare un piccolo, ma deciso, Rinascimento dei funghi nella cultura pop: L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi. L’autore è Merlin Sheldrake, biologo e scrittore britannico che, oltre ad avere un nome da fiaba, si porta addosso la furbizia di un elfo di Gran Burrone e il naso saggio di chi ha passato il proprio periodo di dottorato nelle foreste tropicali di Panama a caccia di un singolo fiore: la Voyria, altresì detto fiore fantasma. Perché? Be’, Watson: perché questo piccoletto trae il suo nutrimento da reti sotterranee di micelio. E il micelio è, detto grossolanamente, la radice del fungo. E quindi seguendo la Voyria si trovano i miceli, e si studiano i funghi. Elementare.

No, non è vero, di semplice qui non c’è niente. Innanzitutto perché, come scrive Sheldrake, dei funghi sappiamo pochissimo. È un rammarico che torna con insistenza nell’Ordine nascosto. Una delle ragioni è che, come il biologo dichiara al Guardian, studiare i funghi è complesso, e richiede avanzamenti tecnologici resi disponibili alla ricerca solo negli ultimi anni. E poi, perché la scienza occidentale ha sempre dato i funghi un po’ per scontati. Al contrario, in Oriente e nelle culture tribali sono ritenuti quasi sacri, e sono studiati e integrati nelle pratiche medicinali tradizionali. «I funghi hanno patito un bias intrinseco alla disciplina [della biologia]. Non sono stati considerati come regno a parte fino agli Anni Sessanta, e la micologia era raggruppata con la botanica». I funghi sarebbero, secondo le parole di Sheldrake e della collega micologa Giuliana Furci, «un regno che non ha ricevuto un trattamento regale».

Treccani alla mano, un regno naturale è «nella tassonomia biologica, la ripartizione sistematica di rango più elevato degli esseri viventi». Un macrogruppo di esseri viventi che condividono certe caratteristiche, insomma. Secondo la classificazione più comune, in natura esistono cinque regni: Piante, Animali, Monera (Procarioti, batteri, alghe azzurre), Protisti (organismi unicellulari) e Funghi. Ma, e non ce ne voglia la vulgata, il Re del regno dei Funghi non è Maestà Porcino, per quanto liffo sia. La corona è sottoterra, in un mondo ctonio misterioso e intrecciato. La porta proprio lui: il micelio.

Sheldrake lo descrive come «tessuto connettivo ecologico, il legame che collega gran parte del mondo». Si può pensare alla teoria dei sei grandi di separazione, oppure si può cercare di immaginare il micelio, intento a scambiare informazioni e nutrienti non solo con altre parti di micelio, ma anche con alberi e piante. Sottoterra, dove non guardiamo, vive così un Wood-Wide Web: termine coniato nel 1997 dalla rivista scientifica Nature per descrivere il lavoro dell’ecologa delle foreste Suzanne Simard, pioniera dello studio dell’interconnessione “intelligente” dell’ambiente forestale grazie alle “autostrade” sotterranee del micelio. In alcuni tratti controverso proprio per l’eccessiva antropizzazione di viventi che umani non sono, il lavoro di Simard ha sfondato un muro che, per Sheldrake, è fondamentale. Perché forse non possiamo attribuire intelligenza ai funghi, o alle piante. Ma, risalendo all’etimologia della parola (“intendere, comprendere”) possiamo studiarli per capire il punto di vista di un fungo – pardon, micelio – sul mondo. E, come sempre, imparare da esso.

I segnali per un approfondimento in tal senso ci sono. Sheldrake ne cita alcuni, raccontando di funghi che si sposterebbero a mo’ di girasole per evitare elementi dannosi nell’ambiente circostante. O miceli che, coltivati in laboratorio, sono in grado di risolvere in rapido tempo problemi logistici come “collegare A e B nel minor tempo possibile”. Provandoci con le principali città dell’Inghilterra, il micelio replica spontaneamente l’attuale conformazione del sistema autostradale britannico. Wild.

L’aneddoto più gustoso, però, riguarda i tartufi, che sono, lo ricordiamo, funghi ipogei (cioè sotterranei). Sheldrake dedica un lungo, poetico capitolo all’oro bianco e nero. E nel farlo ci spiega com’è che i funghi sfruttano noi, e non siamo, al contrario, noi a usare loro per soddisfare stomaco e palato. «Il loro profumo [dei tartufi] è il risultato di un processo attivo di cellule viventi impegnate nel metabolismo. […] Sono chimicamente loquaci, addirittura chiassosi. Se si blocca il metabolismo, si blocca anche il profumo. Per questo in molti ristoranti il tartufo viene grattugiato fresco davanti ai nostri occhi. Pochi altri organismi sono così abili nel convincere gli esseri umani a diffonderli ovunque con tanta premura».

Sì: Sheldrake fa riferimento – colpetto di tosse – ai nostri escrementi, con cui il fungo può assicurarsi di essere trasportato in un luogo diverso da quello di partenza, riproducendosi prosperamente in ambienti inesplorati. I tartufi, insomma, sono così irresistibili solo perché vogliono tanto, ma davvero tanto, espandere il proprio popolo. Il loro odore è così intenso se paragonato a quello dei funghi di superficie proprio perché la sfida numero uno per il tartufo è essere scoperto sotto gli strati di terra umida. Regola di natura, insomma, è che i tartufi ci piacciano, e parecchio. Chi non ne sopporta l’odore, probabilmente, è venuto in contatto con specie di seconda categoria: «a molte persone dà fastidio l’odore delle specie meno pregiate; quello di alcune è addirittura ripugnante».

Stesso discorso, odore a parte, vale per i funghi che tartufi non sono. Ciò che arriva a vedere la luce – e che, come abbiamo detto, amiamo metterci nel piatto – è lo scaltro trucco del micelio per espandersi. Un corpo fruttifero, che, contrariamente a quanto avviene per esempio nel rapporto mela-albero di mele, è composto dalle stesse cellule del micelio, e che spunta generalmente dopo la pioggia perché il micelio e le sue “fibre” (chiamate ife) hanno bisogno di acqua per gonfiarsi e diventare fungo. Chi scrive non ha mai testimoniato la nascita di un fungo, ma, leggendo Sheldrake, forse è meglio così: «la loro crescita può generare una forza esplosiva. [Per esempio] Quando un fungo del genere Phallaceae – o “corni fetidi” – penetra attraverso un blocco di asfalto, produce una forza sufficiente a sollevare un oggetto di centrotrenta chilogrammi». Così, de botto.

Da quel momento i funghi ci aspettano nei boschi come il lupo con Cappuccetto Rosso, pazienti. Tanto sanno che abboccheremo e che, dopo averli saltati in padella, daremo loro nuova vita. Nel frattempo, per sfangare la noia si divertono a lanciare spore di qua e di là, giusto per essere sicuri che la loro missione non sia invano. Nel mentre il micelio ascolta, il micelio sa. Perché ciò che fa davvero cambiare i giochi, e che ci riporta al fatto che i funghi non sono “umanamente” intelligenti, è la decentralizzazione dei suoi centri di comando. Il micelio è ovunque, e da nessuna parte. Non è tale finché più ife non si uniscono e cominciano la loro esplorazione del sottosuolo, allargandosi senza confini. «Se potessi esercitare il gusto con ogni parte del corpo. Se potessi prendere un piccolissimo pezzetto di piede o di capelli e farlo germogliare in un nuovo te, e se questi Doppelgänger potessero fondersi in un insieme sconfinato, impossibile da immaginare. E se quando volessi spostarti potessi produrre spore, particelle di te condensato capaci di viaggiare nell’aria». Allora sapremmo che cosa vuol dire esser funghi. Solo che, evidentemente, non possiamo comprenderlo.

Considerare il fungo, però, è un ottimo esercizio. Non solo scientifico: in fondo si sono visti dei funghi matsutake tra le rovine nucleari di Hiroshima, come scrive Anna Lowenhaupt Tsing nel suo libro Il fungo alla fine del mondo (Keller 2021), e a quanto pare dai funghi, in fatto di sopravvivenza e adattabilità, abbiamo tutto da imparare. Ma anche per un fattore filosofico che introduce concisamente il sottotitolo dello stesso volume: La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, e di far assumere all’ecologia – scienza dei legami e delle relazioni tra ambiente ed organismi – un ruolo di primo piano nella scrittura del futuro che ci si apre davanti, formato da una sfilza di “migliori anni tra i peggiori a venire”.

Su questo, Sheldrake e Tsing levano una sola voce: i funghi sono «la sfida d’immaginazione di cui abbiamo bisogno» (parole di Tsing) per tracciare i contorni di un mondo che rimetta al centro la collettività e che parli la lingua dell’interdipendenza. Proprio come un micelio, che genera funghi singoli, ma a cui non si applica la nozione di singolarità. Questo significherebbe scardinare secoli di lettura della vita incentrata sul principio di competizione e sopravvivenza del più forte (cioè adatto) e volgersi invece verso il principio di collaborazione, l’uno multiforme, come nelle suggestioni di Simard. È una sfida allettante.

Pensiamoci però a pancia piena. Dopo una bella scorpacciata di finferli, Porcini, Orecchioni, Portobello… o, se siamo fortunati, cordyceps.

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